TEMPO, SPAZIO, CORPO (nell'approccio antropologico ad orientamento esistenziale)
Tutto il pensiero antropologico ad indirizzo esistenziale è connotato dalla considerazione del tempo come dimensione ontologica dell’esistenza. Tale impostazione teoretica è inaugurata, sotto il profilo fenomenologico, da E. Husserl, per il quale “[…] nella presenza c’è il reciproco implicarsi della ritenzione del passato e della protensione del futuro”, e, sotto il profilo ontologico-esistenziale, da M. Heidegger, per il quale “[…] il tempo è costitutivo dell’esistenza il cui passato rinvia al suo essere gettata nel mondo (Geworfenheit) in vista di un progetto (Entwurf) in cui si esprime il suo futuro”.
Per K. Jaspers, all’individuo, compreso tra la nascita e la morte, la temporalità compete per una necessità interiore, nel duplice senso di tempo vitale e di coscienza del tempo.
Il tempo vitale “[…] è connesso con la propria specie e ha una periodicità che coincide con la curva
della propria vita”. Tale tempo risulta scandito dagli eventi fisiologici, i quali “[…] rappresentano il substrato delle nostre modificazioni, da cui dipende l’esperienza del tempo e la coscienza del tempo.
All’interno della coscienza del tempo, […] il passato non è mai definitivamente passato, ma sostanzia il presente, non perché me lo ricordo o me lo rappresento, ma perché lo sono e quotidianamente lo riprendo nello stile dei miei atti in cui è rintracciabile la mia identità. Il presente, che in sé è nulla, ha il potere di far essere il “non più” del mio passato e il “non ancora” del mio futuro […].
Il futuro esiste solo per l’attesa umana, le cose non hanno futuro. A esprimerlo è un duplice non-essere: il non-essere di ciò che attendo e la possibilità di non-esserlo. Per questo il futuro è sempre percorso da un vissuto d’ansia e trepidazione che si fa più evidente quando l’avanzare del passato rende impossibili tutti i possibili irrealizzati, tutti i percorsi che potevano dischiudersi ai lati del sentiero percorso.
E’ appunto in ciò che, secondo K. Jaspers, risiede e si realizza la tipica storicità dell’essere umano, in cui “[…] le decisioni future danno al passato un senso definito, in forza di un certo avvenire, in base al quale si dirà, a cose fatte, che il passato ne era la preparazione”.
E. Husserl, per parte sua, aveva affermato che è attraverso la retentio, la presentatio e la protentio che la singola soggettività è in grado di darsi, rispettivamente, un passato, un presente ed un futuro, i quali rappresentano “[…] gli oggetti temporali costituiti dalle modalità con cui la coscienza si intenziona”. In linea con Husserl, Ludwig Binswanger illustra quelle che per lui costituiscono le “forme a priori” della temporalità, nel modo seguente:
"Mentre parlo, dunque nella presentatio, ho già delle protensioni, altrimenti non potrei terminare la frase; allo stesso modo ho, “durante” la presentatio anche la retentio, altrimenti non saprei ciò di cui parlo."
E’ proprio a partire da queste “[…] tre modalità costitutive della temporalità vissuta” che Binswanger può affermare, ad esempio, che, a livello psicopatologico:
"[…] il malinconico sia imprigionato nella retentio senza alcuna capacità protentiva e quindi possibilità di darsi un futuro, mentre il maniaco vive in un’assoluta presentatio senza capacità ritentive e protensive."
Il “turbamento” di una delle tre modalità temporo-intenzionali (retentio, presentatio, protentio), secondo Binswanger, genera il turbamento di “[…] tutto il ‘processo’, tutto il flusso o il carattere di continuità non solo della temporalizzazione, ma anche e soprattutto del ‘pensiero’ in generale”.
Nell’ambito dell’Antropologia clinica ad indirizzo fenomenologico-esistenziale, relativamente all’analisi dell’importanza e pregnanza del fenomeno-tempo come elemento determinante del vissuto esistenziale umano, è da annoverare il fondamentale contributo del Volume di E. Minkowski Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia.
Per Minkowski, “[…] (c)onsiderando il tempo dal punto di vista psichico, ciò che conta […] non sono le categorie logiche con cui lo oggettiviamo, ma il modo di viverlo a cui ci consegniamo”.
In questo ambito è constatabile una differenza qualitativa tra il passato e il futuro che non possono essere messi sullo stesso piano […], perché, ad esempio, il futuro porta con sé quella creatività di cui il passato non può che essere privo.
In particolare, secondo Minkowski, al futuro è intimamente connessa “[…] quell’attività che non ha il suo contrario nella passività, ma nell’attesa”.
"Nell’attività tendiamo verso l’avvenire, nell’attesa, invece, viviamo per così dire il tempo in senso inverso; vediamo l’avvenire venire verso di noi e attendiamo che divenga presente."
E’ in particolare nella malinconia, che, a livello psicopatologico, secondo Minkowski, si rivela in tutta la sua drammaticità tale dimensione del vissuto temporale: nella patologia della malinconia, infatti, “[…] all’attività si sostituisce il vuoto dell’attesa, dove il tempo non è vissuto, ma subìto”.
E’ da considerare, inoltre, che, in tale prospettiva, al futuro risulta intimamente connesso il desiderio e la speranza, che consentono all’uomo di “[…] oltrepassare l’immediatezza del presente allargando la prospettiva all’avvenire”. E’, appunto, nel (e col) desiderio che l’essere umano si pone in grado di superare la propria attività, unitamente alle opere che essa ha realizzato e che, nel complesso, compongono l’orizzonte del suo avere. D’altra parte, limitarsi all’avere “[…] significa incapacità a trascendere le proprie opere che diventano l’orizzonte concluso della propria identità”.
"Trovare perfetto ciò che si è creato è mettere una cosa morta là dove non c’è posto che per una cosa viva, è trasformare in deserto il campo fertile dell’esistenza."
Per Minkowski, la chiusura verso il futuro conduce inevitabilmente alla “estinzione della speranza”, la quale costituisce “[…] la struttura portante della condizione umana in quanto fonda e rende possibile la vita come orizzonte aperto”.
E’ in tale ordine di considerazioni che, sempre a proposito della patologia melanconica, Eugenio Borgna ha potuto affermare:
"(L)e modalità della sofferenza malinconica, dall’angoscia all’esperienza della morte e del morire, sono tematizzate nel loro ultimo orizzonte di significato dalla terrificante esperienza del non-poter-più-sperare, e cioè della frattura della speranza come orizzonte di trascendenza."
Partendo da una prospettiva analoga a quella di Minkowski, Erwin Straus propone di distinguere un tempo dell’Io (Ich-Zeit) da un tempo del mondo (Welt-Zeit), “[…] distinzione che si può sperimentare nella vita quotidiana quando si ha l’impressione che il tempo scorra troppo rapidamente o troppo lentamente”.
Nella depressione malinconica, ad esempio, secondo Straus, il tempo dell’Io sembra subire una sorta di arresto, a causa dell’incapacità e/o impossibilità di acquisire un’indipendenza dal passato ed, in conseguenza, di liquidare le situazioni trascorse:
"L’attività dell’Io non raggiunge più il mondo, e un sentimento di fatalità o un irreparabile “troppo tardi” pregiudicano ogni abbozzo d’azione. Pur lamentandosi dell’ossessione del passato, il malinconico sembra cercare in esso un appoggio e una sicurezza nei confronti del mondo che fugge. Le sue “idee-ricordo” diventano le sue “idee-rifugio”."
Nella depressione malinconica, quindi, secondo Straus, risulta spezzato “[…] quel sincronismo vissuto che è alla base della propria sintonia col mondo”, per cui l’individuo vive la continua sensazione di restare indietro rispetto agli avvenimenti dell’ambiente ed al corso della vita, la quale “[…] si colora di quel senso di impotenza dove il cammino verso l’avvenire diventa un rapido incamminarsi verso la morte”. Ed è appunto la morte che, per il malinconico, “[…] diventa il profilo della sua esistenza”: “La vita in me va verso l’avvenire e io invece vado verso la morte”.
Tutto ciò denuncia, secondo l’analisi di Straus, la disperante distanza che intercorre tra il tempo dell’Io (Ich-Zeit) dal tempo del mondo (Welt-Zeit), che riproduce, in ultima analisi, la jaspersiana distinzione tra tempo vitale e coscienza del tempo.
Al concetto di tempo, nell’ambito dell’Antropologia clinica ad orientamento esistenziale, risultano strettamente collegati i concetti di spazio e di corpo.
A partire dalle premesse fenomenologiche di E. Husserl e da quelle analitico-esistenziali di M. Heidegger, Ludwig Binswanger contrappone allo spazio geometrico (quale è descritto dalle scienze delle natura) lo spazio antropologico, “[…] per cui l’uomo non è nello spazio come tutte le cose del mondo, ma dischiude uno spazio come distanza e prossimità delle cose e come orizzonte della progettualità”.
Allo spazio oggettivo, quindi, si sostituisce uno spazio espressivo, caratterizzato da “[…] quell’intenzionalità che fa di uno spazio geometricamente misurabile un dominio familiare”.
"In questo senso allo spazio posizionale, in cui le cose si dispongono in base a un sistema astratto di coordinate presupposte da uno spirito geometrico che prescinde da qualsiasi punto di vista, la fenomenologia sostituisce lo spazio situazionale che si misura a partire dalla situazione in cui viene a trovarsi il corpo di fronte ai compiti che si propone e alle possibilità di cui dispone. Il corpo, infatti, è l’unico sfondo da cui può nascere uno spazio esterno […]."
D’altra parte, secondo Binswanger, è attraverso l’azione che “spazio posizionale” (spazio esterno) e “spazio situazionale” (spazio corporeo) vanno a costituire un sistema unico ed inscindibile.
"Pilotando una canoa o scagliando una freccia contro un bersaglio si conosce lo spazio come campo d’azione, perché lo spazio della canoa non esiste se non nel movimento ritmico del remo che la fa scivolare sul letto del fiume, così come lo spazio della freccia non esiste se non come una certa potenza del corpo su un certo mondo."
Inoltre, affinché la stessa azione abbia efficacia, oltre alla percezione dello spazio attuale, risulta indispensabile la percezione dello spazio virtuale, senza la quale nessuna azione sarebbe ipotizzabile e realizzabile, “[…] perché ogni gesto sarebbe concluso in se stesso in un’opacità che non rinvia ad alcun senso”.
Un ulteriore elemento che interviene a relativizzare le diverse coordinate spaziali, “avvicinandoci” o “allontanandoci” dalle “realtà esistenziali”, è costituito dalla scelta:
"Una meta, infatti, è vicina o lontana a seconda dei mezzi che decido di impiegare per raggiungerla; la scelta dei mezzi dipende, inoltre, dalle possibilità di cui dispongo o dall’interesse che mi fa apparire la meta “abbastanza vicina” o“troppo lontana”. Qui lo spazio viene ad assumere un connotato che non è geometrico, ma esistenziale, e si lascia percorrere dalla corrente del desiderio o della rinuncia dove è in gioco la mia libertà che decide di percorrerlo o di lasciarlo come definitiva separazione tra me e le cose."
Strettamente connesse alle valutazioni relative allo spazio risultano, nell’approccio antropologico esistenziale, le considerazioni e le riflessioni circa il corpo.
Già E. Husserl aveva affermato: “Tra i corpi […] io trovo il mio corpo nella sua peculiarità unica, cioè l’unico a non essere mero corpo fisico (Körper), ma proprio corpo vivente (Leib).
"Si instaura così la distinzione tra il corpo oggettivato dalla scienza, che si offre all’indagine anatomica e fisiologica (Körper), e il proprio corpo come è concretamente vissuto e sperimentato dall’esistenza (Leib), a cui solamente si riconosce rilevanza psichica. Infatti il “mio corpo” che conosco nella molteplicità delle esperienze quotidiane si rivela come ciò che mi inserisce in un mondo, ciò grazie a cui esiste per me un mondo, mentre il “corpo-cosa” (Körperding) illustrato dai libri di anatomia e fisiologia non è un’altra realtà, ma è la stessa presente in un’altra modalità, nella modalità oggettivante della scienza."
In quanto “Leib”, ho presente e sono il mio corpo e “[…] con esso mi intenziono al mondo”; in quanto “Körper” ho presente e vedo il mio corpo, perché, “[…] nell’orizzonte della presenza, con cui sempre coincido perché altrimenti non sarei al mondo, esperisco il mio corpo come mia estraneità.
E’ da tali premesse husserliane che, nell’ambito dell’Antropologia ad indirizzo esistenziale, saranno esaminate le modalità tipiche con cui il “corpo proprio” si spazializza, si temporalizza, si mondanizza, dando origine a quei vissuti (Erlebnisse) “[…] di uno spazio non geometrico, di un tempo non cronologico, di un nìmondo visualizzato secondo le modalità della propria esistenza (Dasein) e della propria co-esistenza (Mit-dasein)”.
Attraverso la sostituzione della tradizionale e cartesiana relazione “anima-corpo” (res cogitans - res extensa) con la relazione “corpo-mondo” (in cui al corpo è riconosciuta un’originaria apertura ed intenzionalità nei confronti del mondo), l’Antropologia clinica esistenziale ha tentato di leggere ed interpretare i disagi, i disturbi e le disfunzioni patologiche come “[…] modalità particolari di strutturare la propria presenza al mondo che ha nel corpo il suo primo ancoraggio”. Ed è in questo senso che va intesa l’apparentemente paradossale affermazione di J. P. Sartre, secondo cui “[…] il corpo è l’oggetto psichico per eccellenza, il solo oggetto psichico”.
Il presente articolo è tratto dal mio Volume Existentia. Rassegna storico-critica di Antropologia Clinica ad indirizzo esistenziale, Cap. 5, OFB-Editing, Napoli, 2004, cui si fa riferimento, in particolare per quanto concerne le note bibliografiche.