Il virus che sposta le categorie (e l’infallibile tenuta della dialettica hegeliana)
Gli eventi eccezionali non introducono mai delle vere novità, semplicemente fanno vedere meglio – come sotto una lente di ingrandimento – elementi che già ci sono, ma che non emergono ancora in tutta la loro potenza.
Anche con l’ormai famigerato virus Covid-19 è successo questo.
Ed è successo sotto molti punti di vista, ma io vorrei qui riflettere su quanto è avvenuto riguardo il rapporto tra la religione e la scienza.
Tema vecchio come il mondo che ha visto, nel corso della storia, l’alternarsi di diverse fasi e differenti declinazioni nella relazione tra le due.
A me sembrava – prima dell’avvento della pandemia (e molto ci sarebbe da riflettere anche sull’utilizzo delle parole e del linguaggio) – che la nostra fosse una epoca favorevole e pronta ad un nuovo e proficuo dialogo tra religione e scienza, e anche tra religioni e scienze, e anche tra le diverse religioni tra loro e tra le diverse scienze tra loro.
E mi sembrava, anche, che la filosofia avrebbe potuto trovare il suo posto all’interno di questa relazione, recuperando il suo ruolo precipuo e reintegrando, finalmente, tutti quei “pezzi” che si era “persa per strada” dall’inizio della sua parabola.
Ma, come spesso – se non sempre – accade nelle mondane vicende, un elemento imprevisto (anche se forse non imprevedibile) è arrivato a scompigliare le carte in tavola o, forse, a ricomporle in un modo nuovo, in un ordine che ha sorpreso i più, ma che probabilmente non ha affatto stupito i giocatori più abili.
Che il ruolo della religione non fosse del tutto esente da una vicenda che appariva solo strettamente sanitaria, a me è “risuonato” fin da subito, anche se non capivo bene come.
Intendo: sono rimasta eccezionalmente colpita dall’assordante silenzio delle gerarchie ecclesiastiche di fronte al divieto di celebrare i riti religiosi e, soprattutto, di fronte alle imposizioni riguardo la sepoltura.
A questo riguardo si potrebbero svolgere molti ragionamenti di carattere politico, medico, anche ragionamenti inerenti il rapporto Stato-Chiesa e molti altri ancora, ma non è questo quello che mi interessa fare ora.
Certamente, un senso di profondo abbandono e solitudine mi ha accompagnata nel vedere immagini e sentire notizie che quotidianamente rimandavano – almeno nella mia percezione – al venir meno assoluto della umana pietas.
Ho subito sentito questa cosa come gravissima, indipendentemente dall’essere credenti o meno, atei o agnostici: non ha importanza. La gravità io non l’ho vista tanto nel doversi sottoporre alla rinuncia di assistere i propri cari malati e di non poter accompagnare i propri defunti attraverso i rituali religiosi, o meglio: questi aspetti mi hanno umanamente addolorata anche perché non sono più così giovane da non aver avuto a che fare con queste circostanze della vita e so quanto conforto possa riservare il dono di poter bagnare le labbra a un tuo caro morente.
Dicevo, la gravità però non l’ho vista tanto nelle imposizioni fatte in nome della “emergenza sanitaria” sulle quali, semmai, si potrebbe discutere in termini di adeguatezza, di libertà personale, libertà comune, diritto alla salute, eccetera, ma l’ho percepita a livello simbolico – se così possiamo dire – rispetto al ruolo delle autorità religiose che io ho percepito come del tutto assenti.
E, fin da subito, mi sono chiesta: perché?
Perché non viene rivendicato il ruolo della religione?
Perché si rinuncia – nemmeno tanto obtorto collo – alla cura animarum, ma, anche – e non è un dettaglio – alla “cura” del corpo?
Perché si abdica così alla “gestione” del limite estremo, del confine della vita?
No, qualcosa non mi quadrava.
Oggi leggo un brano di Umberto Galimberti, tratto da Orme del sacro:
“L’opposizione sacro-profano è riconducibile all’opposizione puro-impuro con cui si circoscrive la sfera del male, creando schemi d’ordine che poggiano sull’antitesi di un polo positivo e di uno negativo. All’impurità è connesso il contagio, con conseguente reazione di terrore e procedure di isolamento, da cui si esce con particolari pratiche rituali, magiche e sacrificali. Rito, magia e sacrificio servono a tenere lontani gli effetti malefici delle potenze superiori che abitano la sfera del sacro, e a propiziare quelli benefici”.[1]
E subito penso che il testo nel quale è contenuto potrebbe anche chiamarsi Orme del virus.
Mi colpisce l’antitesi “puro-impuro”: ma non è quello che stiamo vivendo tutti?
Contagiati verso non contagiati e la “nuova specie umana” apparsa sul pianeta: gli “asintomatici”, ammantati di una sinistra pericolosità perché sono contagiosi, ma non si vede, quindi portano in sé – simbolicamente – il massimo del terrore possibile ovvero la paura verso un “nemico invisibile” che, si sa, è il più temibile di tutti.
Mi soffermo sull’espressione “si circoscrive la sfera del male, creando schemi d’ordine che poggiano sull’antitesi di un polo positivo e uno negativo”: eh sì, anche il nostro attuale mondo è nettamente diviso tra “bene” e “male” che, in questo contesto, significa “sani” e “malati”.
Dimenticando la cosa più banale di tutte: che chi è definito “malato” è perché “si sa che lo è”, ma nessuno può dire di un cosiddetto “sano” che non porti in sé un morbo anche peggiore di quello che viene definito “malato”, solo che il “sano” non lo sa, o non lo sa ancora, o forse non lo saprà mai. Essere vs apparire: l’antitesi più trita e ritrita della storia della filosofia.
Esaltazione all’ennesima potenza di un rigido dualismo, anche piuttosto di bassa lega, non certo logicamente raffinato, che avrebbe fatto accapponare la pelle a Meister, Eckhart, Hegel, Eraclito e molti altri ancora.
“All’impurità è connesso il contagio, con conseguente reazione di terrore e procedure di isolamento”: stiamo parlando dell’opposizione sacro-profano o della situazione che stiamo vivendo tutti da più di due mesi a questa parte?
Il “contagio”, che ha sempre atterrito l’essere umano, che ci riporta alle celeberrime descrizioni di grandi letterati delle famose pesti che hanno ciclicamente coinvolto l’umanità o parte di essa, e che sempre altro non fanno che far emergere macroscopicamente la più grande e atavica paura che abbiamo, quella dell’“altro”. Questo “ignoto” che ci affrettiamo sempre a “buttare fuori” perché proprio non sappiamo “tenerlo dentro”, che piuttosto che ammettere che l’“altro siamo noi” siamo disposti a mettere in campo arsenali bellici per sterminare fisicamente gli “altri”…sperando di averli debellati tutti e che non se ne ripresentino più di nuovi…
Cosa che, ovviamente e immancabilmente, si verifica. E si ricomincia daccapo.
“Isolamento”: che di per sé non sarebbe una parola né una pratica negativa, anzi.
Assieme alla nostra intima costituzione relazionale si accompagna la nostra identità come esseri singoli e – se così vogliamo dire – “isolati”: “io” sono “io” anche perché “non sono l’altro”, conditio sine qua non per “pormi in relazione”. Gioco di equilibrio dei due poli – non opposti – ma complementari e imprescindibili entrambi per se stessi e insieme.
Diverso si configura l’isolamento imposto, l’isolamento che divide, che spacca, che rompe la continuità tra me, me-e-gli-altri, me-e-il-mondo.
Il primo è isolamento dinamico e vitale, il secondo è isolamento statico e mortale.
E poi la chicca finale: “isolamento da cui si esce con pratiche rituali, magiche e sacrificali”: eh sì, eccole qua! Disinfezione delle mani, amuchina in luogo di acqua benedetta, mascherina ovvero copertura del volto…più emblematico di così… e sacrifici, di corpi e di anime.
E allora io dico: se si riesce a leggere un brano che dovrebbe descrivere il rapporto tra il sacro e il profano in ottica religiosa applicandolo in maniera perfetta ad un contesto che dovrebbe essere sostanzialmente diverso, e se a questo si aggiunge che il “polo religioso” è come sparito dall’orizzonte, non è che ci troviamo di fronte, oltre che a molte altre cose, anche ad uno spostamento radicale di categorie?
Non è che il ruolo della Religione è stato ormai definitivamente assunto dalla Scienza?
Non è che si sta ripetendo la solita, vecchia ma sempreverde storia della dialettica hegeliana?
Non è che il Tribunale dell’Inquisizione è stato sostituito dalle task force scientifiche?
Non è che l’ortodossia si è spostata dal campo religioso a quello scientifico e, insieme alla “retta opinione” si è portata dietro anche l’eterodossia, ovvero l’”opinione diversa”?
E non è che l’“opinione diversa”, sia essa attinente al campo religioso o al campo medico, invece che essere fonte di ricchezza e confronto, diventa tout court “eresia” e, in quanto tale, condannabile e condannata da chi pretende di detenere l’ortodossia?
E, infatti, stiamo assistendo a tutto il circo – anche questo vecchio come il mondo – di “tribunali” che condannano con processi sommari gli “eretici”, che mettono in piedi sofisticati procedimenti copertura per farci accapigliare su piccole quisquilie mentre – altrove – si discute e si decide delle faccende importanti.
Divide et impera, distrazione del popolo attraverso operazioni mediatiche, damnatio memoriae che, in termini odierni possiamo tradurre con: tutti a casa a litigare sui social perché i commercianti ce l’hanno con le partite iva e i dipendenti pubblici ce l’hanno con i lavoratori edili; tutti impegnati a fare corsi on-line di cucina, yoga e riciclo creativo; video rimossi dalla rete e oscuramento di informazioni.
Ma la mia non vuole essere una critica politica (anche se, volendo, ce ne sarebbe da dire), quanto piuttosto una riflessione – che ha prima di tutto stupito me stessa appena l’ho ravvisata come possibile – su questa “emergenza” non intesa come “emergenza sanitaria”, ma come “emergenza” alla maniera dei fenomenologi.
Sta “emergendo” – ma, direi, è già “emerso” – un “nuovo mondo” o una nuova “visione del mondo”, che tanto è lo stesso.
E una delle cose più strabilianti che è accaduta è proprio questa: le categorie religiose si sono spostate all’ambito scientifico, in particolare all’ambito medico.
Ma la medicina, a rigore, non è una scienza, quanto piuttosto un’arte, come ben hanno sempre saputo tutti e come solo noi siamo riusciti a dimenticare.
E ora siamo qui, davanti ai tribunali dell’inquisizione scientifica, che si sono scordati completamente che ciò che fece esplodere la Rivoluzione Scientifica di Newton e Galilei fu proprio la messa in discussione del “principio di autorità” in nome della libertà di ragionamento e di esperimento.
E siamo qui, ognuno circondato non solo di possibili schiere di “untori”, ma anche di una miriade di possibili “delatori”.
E siamo qui, che se non ci fanno il tampone non sappiamo nemmeno in quale categoria ci dobbiamo annoverare: “puro” o “impuro”?
E siamo qui, che non abbracciamo più nemmeno i nostri parenti stretti perché il contagio si potrebbe annidare ovunque, e in chiunque.
E siamo qui, avendo come unico salvacondotto l’“autocertificazione” a cui vengono attribuite proprietà certamente taumaturgiche visto che – uscendo con questo pezzo di carta in tasca – ci si sente un po’ più “al sicuro”, non solo dai controlli delle forze dell’ordine, ma anche dall’aggressione del virus stesso…
E siamo qui, non si sa se più terrorizzati di “ammalarci” o di essere multati – se non peggio – disposti a vendere non solo l’anima al diavolo, ma, stavolta, anche il corpo, dimentichi del fatto che se anima e corpo non stanno insieme, non si capisce bene che cosa stiamo difendendo se non un vuoto “involucro”.
E siamo qui, e non abbiamo perso i rituali, solo che non sono più rituali religiosi, ma sanitari.
E non abbiamo perso i ministri del culto, solo che non sono più le gerarchie ecclesiastiche, ma i medici e i virologi.
Non c’è proprio niente di nuovo nell’”avvento della pandemia”…che, guarda caso, chiamano “avvento” e che “pan-demia” contiene etimologicamente il nome di un dio…
Non c’è proprio niente di nuovo nell’essere umano che, sempre e da sempre, ha bisogno di essere consolato e rassicurato, di aggrapparsi a delle certezze, qualsiasi esse siano, ma che certezze siano!
Non c’è proprio niente di nuovo, solo che, in questa fase, alcune cose di vedono meglio, proprio come sotto una lente di ingrandimento.
Invece no, una cosa nuova c’è: siamo nel punto più estremo, io credo, di cecità rispetto all’umana natura, disposti a rinunciare a tutto per difendere niente.
Mi sembrava fossimo all’inizio del momento della sintesi di hegeliana memoria, invece siamo al fondo più profondo del momento dell’antitesi.
Non si può vivere umanamente senza annusare il mondo e mostrare la bocca, senza toccare la mano di un amico, senza fare una carezza a chi sta percorrendo gli ultimi istanti di questa vita.
Tutti in attesa del “farmaco miracoloso”… una sorta di “messia” che verrà a salvarci e, nell’attesa del quale, la vita è “sospesa”, aspettando di vivere la “vera vita dopo”.
Dimenticando che pharmacon significa “medicina”, ma anche “veleno” che non vuole essere, qui, una polemica contro la medicina e le cure mediche, ma un monito a ricordare chi siamo e a riflettere, soprattutto, su chi vogliamo essere.
Il virus ha spostato le categorie di “sacro” e “profano”, ma a me pare che, nello spostamento, il “sacro” abbia smarrito la sua essenza profonda e non sono convinta che l’uomo – anch’esso inteso nella sua essenza profonda di antrophos, di “uomo integrale e integrato” - possa fare a meno del “sacro”, pena il suo diventare “cosa tra le cose”, pena il suo perdere il “ci” dell’”Esser-ci”.
[1] UMBERTO GALIMBERTI, Orme del sacro, Feltrinelli, Milano 2000, pag. 14 versione e-book;
Commenti