L’esistenza autentica come “seconda vita”
L’esistenza autentica come “seconda vita”
Considerazioni neo-esistenziali
“A chi sa leggere una seconda volta”: questa la dedica posta da François Jullien al suo Saggio “Une seconde vie” (trad. it. “Una seconda vita. Come cominciare ad esistere davvero”, Feltrinelli, settembre 2017).
Mi ha sorpreso, quella dedica! Incuriosito e sorpreso!
Le “dediche”, di norma, tendo a considerarle poco (quasi un “sovrappiù”). Ma quella dedica (non so perché) ha attirato subito la mia attenzione. Mi piaceva!
A livello subliminale, quelle parole (… leggere una seconda volta) hanno accompagnato costantemente la mia “prima” lettura del saggio di Jullien, fino a quando, al nono capitolo, mi hanno come “fulminato”. Ne ho, finalmente, compreso (più compiutamente) il senso. Fulminante e illuminante!
“Rilettura, ripresa, re-impegno”, questo il titolo del nono capitolo. In esso ho percepito ed assaporato il succo di un pensiero (profondo), con cui sento di vibrare in sintonia: la “ri-lettura” di un testo come metafora di una “ri-presa” della propria esistenza, in un “re-impegno” esistentivo, per cominciare a esistere davvero.
La “Ri-Lettura”.
“Quando si legge per la prima volta si resta appesi al filo di ciò che si sta leggendo”: queste le parole con cui Jullien dà inizio al capitolo.
Durante la prima-lettura prevale (di norma) la curiosità di “sapere come va a finire”. Si è “spinti a voltare pagina”, in attesa di un “ ‘dopo’ che conduce più lontano”.
In questo senso, la prima-lettura è “prospettiva ed esplorativa”.
Al “piacere della scoperta” non corrisponde ancora la capacità di “misurare” (dare misura e spessore) a ciò che si viene a “scoprire”.
Che cosa tende ad accadere, invece, in occasione di una ri-lettura o “seconda-lettura” (perché, come afferma Jullien, “che sia la terza, la quarta, o l’ennesima, si tratta sempre di una seconda volta bis”)?
Nel “silenzio” del tempo trascorso dopo la prima-lettura, che cosa è decantato, che cosa si è riconfigurato?
Quali “mancanze”, “desideri”, “attese”, “oblii”, hanno (sub-liminalmente) sollecitato la “ri-presa” di quel testo (la sua ri-lettura)?
Che cosa si è “capitalizzato” e “ramificato” dentro di me (e … a mia insaputa!), in maniera tale che adesso io vi ri-cerchi qualcosa di più (più-preciso, più-valido, più-nuovo)?
Se sento il bisogno di (e la spinta a) ri-leggere è perché è emerso dal profondo un “interesse”, in quanto “la ri-lettura non è una ripetizione, non riproduce la prima lettura, non la duplica ma la dispiega”.
L’attenzione è stata ri-destata! Al punto tale che ri-leggendo posso avere la sensazione (strana ed esaltante) di leggere-per-la-prima-volta.
D’altra parte, non essendo più pressata dall’esigenza di “voltare pagina”, la ri-lettura non è più proiettata-in-avanti (come, invece, lo era la prima-lettura). Non risulta più connessa alla (e gravata dalla) esigenza di sapere quanto segue o del “come andrà a finire”.
Quando è veramente tale, la “seconda-lettura” non è impaziente, ma “assaporante”. Molto spesso, dettagli (minimi e, prima, neanche notati) risaltano, si precisano, assumono spessore e rilievo.
Come afferma Jullien: “È solo quando ritorno, che emerge un interesse”.
Ri-leggendo, si è portati ad “interrogare” in maniera più profonda, pregnante, attiva.
Se la prima-lettura, quindi, risulta “assimilativa” (riconducendo il testo al conosciuto, per poterlo com- prendere), la ri-lettura si dispiega e guadagna in “radicalità” e “novità”.
Ha luogo, in essa, uno sprigionamento (termine molto “caro” a Jullien), frutto ed espressione di una acquisita lucidità (altro termine a lui particolarmente caro).
Attraverso la “decantazione” della (delle) lettura (letture) precedente (precedenti), una acquisita lucidità permette di accedere meglio al “profondo” e lasciare sprigionare più compiutamente la “ricchezza” (e, nel contempo, la “singolarità”) del testo ri-letto.
E, attraverso il testo, il miracolo della sintonia tra chi legge e chi quel testo ha scritto, creato e finto (nella accezione originaria, più autentica e completa del verbo fingere: “plasmare”, “dare forma”).
In questo (e da tutto questo), la ri-lettura può essere considerata una pregnante metafora di ciò che Jullien denomina “seconda vita” (così come il passaggio dalla prima-vita alla seconda-vita può considerarsi passaggio dalla esistenza banale alla esistenza autentica, di kierkegaardiana memoria).
Come la ri-lettura (non più orientata dalla “impazienza” del “voltare pagina”) si prende il proprio tempo nel presente della pagina, la “seconda vita” non si colloca nella “impazienza di quello che succederà dopo, ma comincia a realizzare la possibilità di provare il momento presente in quanto tale e di trattenerlo”.
Ma la domanda (cruciale) che, a questo punto, si pone è: “In che senso (ed in quale misura) potrei ri-cominciare a vivere nella continuità della mia vita?”
Concordo pienamente con Jullien, quando afferma che “non possiamo uscire dalla nostra vita e rientrarci” e che “non abbiamo una vita di ricambio o di sostituzione”.
E, come Jullien, anche io mi chiedo (e mi sono chiesto) se “un nuovo inizio può aver luogo nella vita ma senza che si debba invocare un Altrove”.
È possibile una seconda vita in questa vita? Non un’altra vita, ma una seconda vita! È possibile che in questa vita possa emergere un nuovo inizio?
In termini “esistenziali”, la seconda vita sarebbe, allora, la vita in cui finalmente cominciamo ad esistere (autenticamente).
L’esistenza autentica (seconda-vita), in questa prospettiva, “procede dall’immanenza stessa della vita”, quando si ha il coraggio di rimettere in gioco la propria vita. Liberando nuovi possibili, per cominciare a riconfigurarsi globalmente ed a ri-orientarsi (ri-leggersi). Per imprimere alla vita una nuova partenza. O (forse) una prima vera partenza, non in direzione di un “aldilà”, proiettato verso un’altra-vita, ma piuttosto verso una esistenza-autentica (nel qui ed ora), alla scoperta di risorse inesplorate.
Il fatto è che “entrando nella vita” (la prima-vita), “eravamo del tutto incapaci di scegliere come vivere e abbiamo conosciuto a malapena l’esperienza di un primo inizio”.
In effetti, non c’è stato un primo momento in cui abbiamo effettivamente iniziato a scegliere ciò che “volevamo” vivere. Se abbiamo “dovuto” fare cose che si oggettivavano in “scelte”, lo abbiamo fatto in gran parte alla cieca: non solo (e fin troppo spesso) non conoscevamo ciò che sceglievamo, ma (e soprattutto) non sapevamo neanche di “scegliere”!
Solo “retrospettivamente” le prime scelte da noi compiute ci sono apparse come “scelte”. Di fatto esse si configuravano piuttosto come “esiti”: ciò che ci aveva spinto a tali “scelte” (pseudo-scelte) ci sfuggiva. In primo luogo, ci sfuggiva che là si desse una scelta (un inizio).
Nella dimensione dell’esistenza in cui siamo immersi, allora, è solo in un secondo-tempo che qualcosa di prossimo ad una scelta può e-mergere (ex-sistere), qualcosa di simile a un inizio può “abbozzarsi”.
Come ci dice Jullien: “È solo attraverso la decantazione dell’esperienza e la distanza presa rispetto a quanto essa continua a implicare e imporre, a limitare, che qualcosa che si approssima a un’iniziativa può liberarsi”.
È solo in un secondo-tempo che risulta possibile “ri-tornare” sulla propria vita, per “scegliere-di-esistere”, offrendo alla propria esistenza una chance di autenticità.
Ossia, è solo avendo iniziato a “discernere possibilità effettive nell’elemento stesso della vita già avviata” (come afferma Jullien) che si dà la possibilità di ri-tornare sulla propria vita e investirsi più efficacemente (autenticamente) in essa.
È cominciando a ri-tornare sulla vita passata, che è possibile “appropriarsi” (fare-propria) della capacità di dar vita ad un nuovo-inizio (in grado di trasformare la mera-vita in autentica esistenza). In fondo, d’altronde, risulta chiaro che ai tempi del primo-inizio della (e “nella”) vita, eravamo privi di spazi di manovra e della consapevolezza di (e per) iniziare.
Si tratta, quindi, di una ri-presa della propria vita, grazie allo spazio di manovra acquisito, che consente di iniziare a “tenersi-fuori” (ex-sistere) da ciò che limitava (e condizionava) la vita. Limiti e condizionamenti di cui non si sospettava neppure l’esistenza e che, proprio per questo, si credevano fatalmente ed essenzialmente stabiliti. Per cominciare (più autenticamente) a “scegliere-di-esistere”.
Se (come sostiene Jullien) le prime “scelte” che ho fatto … erano troppo indotte per essere vere scelte, mi è data una “possibile alternativa”: cominciare a ritornare sulle mie scelte precedenti (che non erano, propriamente, “scelte”) e a di-staccarmi, a poco a poco, dai miei primi investimenti.
Non si tratta di “ritirarsi-dal-mondo”, quanto piuttosto di iniziare a ri-orientare la vita, a partire dalla vita stessa. Sprigionare (togliere dalla “prigione”) la “vita”, per trasformarla (darle nuova forma) in autentica “esistenza” (ex-sistere: porsi fuori).
Ma il “porsi-fuori”, proprio dell’esistenza autentica, pone (ineluttabilmente) l’individuo (il Singolo kierkegaardiano, il Da-Sein heideggeriano) di fronte alla morte. La propria morte! L’unico futuro di cui si sia certi. Come dice Jullien: “… la sola cosa di cui sono assolutamente sicuro che mi accadrà e su cui posso regolarmi”. E prosegue: “… lo sapevo anche prima, ma non lo avevo realizzato, ossia lo sapevo con un sapere che non voleva sapere …”.
Eppure, è proprio quando (finalmente) si ha il coraggio di proiettare di fronte a sé la propria-morte, che una seconda-vita può avere un autentico inizio!
In questo (e per questo) Heidegger ha potuto affermare che l’esistenza-autentica” è connotata dall’essere-per-la-morte (Sein-zum-Tode).
Da questa prospettiva, la prima-vita è quella in cui si evita di “guardare” la propria-morte. E, per converso, la seconda-vita è quella che si apre nel momento in cui comincio a considerare la mia morte come una scadenza.
Dal momento in cui ci si pone (effettivamente) davanti la propria-morte, si entra (ipso-facto) nella possibilità di una “seconda-vita”. Da lì in avanti si definisce la possibilità di un secondo-tempo da vivere.
Ed anche il tempo (appunto) assume una valenza differente.
Nella prospettiva della prima-vita, il presente risulta senza con-sistenza. Non ha “limiti” che lo determinino. È pura “transizione” tra passato e futuro. Puro “punto di passaggio” dall’uno (passato) all’altro (futuro) e dell’altro (futuro) nell’uno (passato), il presente non sembra avere una maggiore “estensione” di un punto geometrico (e, di conseguenza, risulta privo di e-sistenza). Per questo, ci sfugge continuamente.
E potremmo chiederci, allora, se “viviamo veramente” dal momento che possiamo vivere solo “al presente” (o se, in fondo, la vita non è altro che sogno).
È possibile uscire da questa impasse? Ritrovare un presente da (e in cui) vivere?
Illuminante (e, per me, sprigionante) si è rivelato quanto propone, a tal proposito, François Jullien: “… se pongo adesso la mia presa di coscienza della mia morte come primo termine e la morte a venire è chiamata a svolgere definitivamente il ruolo di secondo termine, un ‘presente’ […] viene ad essere effettivamente delimitato, staccandosi dal flusso illimitato della durata […] come il tempo in cui esisto ancora”.
Allora, il mio-presente è costituito da ciò-che-mi-si-presenta (mi si offre), nella sua “interezza”, fra il “momento esistentivo” in cui “considero effettivamente” la mia-morte e il momento (il giorno … l’ora … l’istante) in cui sarà (è) avvenuta la mia-morte.
Il “presente-della-seconda-vita” (dell’esistenza autentica) è l’opportunità ed il “dono” che mi è dato, in un “solo corso” (nel quale non si disgiungono “futuro” e “passato”) ed in una “sola estensione” (dall’instante in cui mi-pongo-di-fronte-alla-mia-morte fino alla occorrenza-della-mia-morte).
È (da questa prospettiva) un presente che non può emergere (ex-sistere) dalla prima-vita, se non dopo che, come dice Jullien, “io sia riuscito a considerare effettivamente la mia morte”.
Il presente-della-seconda-vita appare (“ex-siste”), e mi si dona, “in forza della coscienza che ho acquisito della mia morte”. Esso, allora, si configurerà come “… il presente attivo di una seconda vita che inizia con il fatto che considero senza tergiversazioni e autocommiserazione il termine non databile ma indubbio della mia vita”.
Una seconda-vita (esistenza autentica), allora, ha la possibilità di avere inizio, come “nuova-vita”, allorché ho il coraggio di “pensare” (e “pormi-di-fronte”) alla sua fine.
“Prima” non ci pensavo. Dal momento in cui ho (finalmente) il coraggio di pensarci, una seconda-vita (una esistenza autentica) può effettivamente iniziare (… senza che siano necessarie buone intenzioni, senza proiezioni del desiderio, autosuggestioni o affabulazioni, come ben dice Jullien).
Ma il “passaggio” all’autenticità della seconda-vita, oltre che di (e assieme al) coraggio, abbisogna di “lucidità” (frutto di un coraggioso-disincanto). E la lucidità è (sostanzialmente) frutto di penetrazione e di perspicacia (i due termini rinviano, entrambi, ad una “situazione” in cui sussiste una opacità, una difficoltà da sciogliere; il primo fa perno sulla dimensione della profondità, il secondo su quella della chiarezza).
La lucidità, in quanto coraggioso-disincanto, è “l’esito di un divenire”: si diviene lucidi tramite l’esperienza. La lucidità si può sprigionare solo a partire da tutto ciò che si è vissuto e attraversato. Essa con-siste in un livello a cui è in grado di accedere la coscienza ed esprime (sostanzialmente) l’uscita da una condizione di indistinzione (che gravava sullo spirito-coscienza) e da cui “inconsapevolmente” ci si lasciava abusare.
In tal senso, la lucidità indica l’uscita dalla “con-fusione” della prima-vita e rappresenta la acquisita capacità e risorsa dell’individuo di accedere alla seconda-vita (esistenza del Da-Sein, che, nel qui-ed-ora del “presente esistentivo”, passa dall’inautentico all’autentico attraverso la acquisita lucidità del suo essere-per-la-morte).
Ma la lucidità è impregnata di “rischio”. Essa obbliga a vedere e percepire la realtà “come è” (disincantata, spoglia da ogni illusione).
L’individuo, immerso nella prima-vita (esistenza banale), infatti, è portato a desiderare (in fondo) proprio il contrario della “lucidità”. Inconsapevolmente tende a preferire una condizione di “ingenua indistinzione”, che non obbliga (appunto) al disincanto di vedere la realtà così come effettivamente è, spogliata dalle sue illusioni! Nella prima-vita, la lucidità è temuta!
Solo attraverso il coraggio ed il rischio dell’inizio di una seconda-vita (di un’esistenza autentica) è possibile accettare la “lucidità” che proviene e sgorga da tutto quanto si è vissuto (nella prima-vita), ma emendato da ogni falsa illusione. Solo allora, la “realtà” (disincantata) esce dalla “equivoca nebulosità” e permette all’individuo di “ritrarsi” dalla prima-vita, per “rischiare-ciò-che-resta”, attraverso il coraggio-della-seconda-vita.
In una parola, la lucidità può promanare solo dall’esperienza decantata.
Attraverso la lucidità il “reale” diventa effettivo, nudo, “spogliato”. “Sprigionato” e, quindi, liberato dal facile comfort delle illusioni.
Per questo, nella prima-vita, lo “spirito” ne ha terrore! Per questo si esige il “coraggio del disincanto”, per passare alla seconda-vita. Coraggio che permette di vivere il disincanto-lucidità non come “pessimismo”, ma piuttosto come audace opportunità di un’esistenza maggiormente autentica (seconda-vita).
L’autentico “coraggio” è il frutto di una “risorsa vivace” (in grado di “sprigionare vita”: la seconda-vita). Risorsa che permette (finalmente) di “osare” una seconda-vita, senza perdere un minuto in più del tempo che resta.
Chiunque abbia (o abbia avuto) tale “coraggio” (figlio del disincanto-lucidità) è (è stato) in grado di pervenire alla “autenticità” dell’esistenza.
Per questo, Jullien può affermare che già Platone (nel Sofista, 234 d-e) aveva illustrato “come si arriva alla lucidità a partire dall’esperienza accumulata e decantata da cui si vede procedere la possibilità di una seconda vita”. Già in Platone si evince che tale acquisita (e “rischiata”) lucidità, propriamente parlando, non può essere frutto di una “istruzione”, ma si ottiene solo per “decantazione” dell’esperienza, che “… squarcia il velo di illusioni con cui lo spirito abusava della coscienza”.
Ma tale acquisita lucidità non è da confondere con un mero “cambiamento di opinione o credenza” (sostituzione di una convinzione con un’altra), né tantomeno come trapasso da un “ottimismo ingenuo” ad un “pessimismo rassegnato”. Assolutamente il contrario!
Affermare (attraverso il coraggio disincantato della seconda-vita) che l’illusione “è stata smascherata” significa affermare che una “verità” si è sprigionata.
La “vita” non è come l’abbiamo (inconsapevolmente e “passivamente”) vissuta, o come ce la hanno “insegnata”. Si tratta di osare (finalmente) eliminare tutto quanto era stato “pre-supposto”.
Non si tratta tanto di “dubitare”, quanto piuttosto di “osare”. Osare con lucido coraggio di affrontare (“vivacemente”) la domanda esistentiva: “Da che cosa mi devo tenere fuori, per dare un autentico inizio alla mia seconda-vita?”. E di rispondere (coraggiosamente e fattivamente) a tale domanda, come propone Jullien: “… So ormai da che cosa mi devo tenere fuori: intrighi e ambizioni, giochi di potere e interesse, le vigliaccate di successo, la mediocrità che fa trionfare, e ancora fare finta di gestire la propria immagine e utilizzare il pettegolezzo”.
È questa la “lucidità” che costituisce “la soglia della seconda vita”.
Lucidità (e coraggio) intollerabile per la “società”, di cui porta a “denunciare gli ingranaggi”. La “società” (come chi è immerso nella prima-vita) in fondo vuole ingannarsi sulla “verità”, non ne vuole sapere, proprio nel momento in cui simula di aspirare a quel “sapere”.
La “società” teme la “morte”! Ne ha “terrore”! E dissimula (subdolamente e continuamente) tale terrore!
In fondo, allora, fino a che punto si è disposti ad ammettere che la vita senza la morte sarebbe insopportabile? O (come afferma audacemente Jullien) che “Thànatos è non tanto l’altro di Èros, ma ciò che lo muove dall’interno e lo accende?”. Fino a che punto si osa squarciare il velo che ricopre (e dissolve) le “pseudo-sicurezze” della società (e della prima-vita)?
“Come ribaltare e volgere-in-positivo la perdita delle illusioni, da cui può emergere una seconda-vita?”, si chiede (e ci chiede) Jullien. In altri termini, in che senso (e fino a che punto) è possibile “rovesciare il negativo” (del lucido-disincanto) nel “positivo” di una esistenza veramente autentica?
E qui subentra l’altro termine (oltre a “lucidità”) caro a Jullien: “sprigionamento”.
Innanzitutto (come egli afferma), “come la lucidità procede dall’esperienza, lo sprigionamento procede dalla lucidità”. Attraverso la “lucidità” (ed il “coraggio” del “disincanto” dell’esperienza) si dà la possibilità dello sprigionamento di una seconda-vita.
Sprigionamento, che non significa solo (ma anche) “liberare da ciò che disturba, ostruisce, ostacola”. Vuol dire altresì “estrarre” (ex-trarre): trarre-da quanto si è accumulato (e che restava confusamente mescolato e che, quindi, non emergeva) qualcosa di “insospettato”. Risorse e potenzialità (già con-tenute) che vengono dispiegate rimuovendo ciò che le “nascondeva” e “bloccava” sotto il “peso” della quotidiana banalità della prima-vita.
“Sprigionamento” è, allora, l’atto dell’autentico ex-sistere: tenersi-fuori-da ciò che con-tiene ed opprime. È “e-mergenza”, possibilità di “sviluppo”. L’opposto di “piattezza”, “stagnazione”, “stallo”.
In questo (e per questo) permette (attraverso il doloroso processo del lucido-disincanto) di accedere alle “risorse-implicite” (implicate) della vita, che “fino a quel momento non erano vagliate e decantate, e a maggior ragione dispiegate”.
Proprio come afferma Jullien: “La seconda vita, infatti, è la vita che si è emancipata da una prima vita che si era bloccata o, peggio, impantanata”. E, appunto in questo senso, la “seconda-vita” consiste in una “esistenza” che, a partire dalla lucidità acquisita, si presenta come “vita-sprigionata”.
Ma lo “sprigionamento” non rimanda certo all’abbandono, alla rinuncia, al disimpegno!
Non spinge ad “abbandonare le cose”, quanto piuttosto permette di non subire più la loro “rigidità” e la loro “influenza imprigionante”. Lo sprigionamento non è “evasione”. È piuttosto espansione. Esprime l’uscita da una condizione-di-chiusura, in forza dell’estendersi delle prospettive. È affrancamento. Permette di vedere (e vivere) non tanto altre cose, ma le cose altrimenti!
In fondo, comporta (e sprigiona) un “alleggerimento-esistenziale”, frutto di un “rischiaramento dell’esistenza” (la Existenz-Erhellung di Karl Jaspers). In qualche modo (ed in qualche senso) comporta un “ringiovanimento”, una “rinascita”. Permette di raggiungere, attraverso un’alba rinnovata, la “trasparenza del mattino”.
Rimuovendo ciò che ingombrava la vita (e, in primis, la “preoccupazione-per-la-propria-vita”) è possibile morire-rinascendo e rinascere-morendo. “Rinascere” a ciò che ha fatto morire in me l’attaccamento (asservimento) alla vita (la prima vita). Conseguendo, così, quel livello di liberazione (sprigionamento) da una esistenza-imprigionata nella “opacità” della banalità e superficialità di un vivere che non riusciva a fare della morte (avendone paura) la propria compagna e consigliera.
In questa prospettiva, allora, quello che Jullien definisce “sprigionamento” non comporta (e non sfocia in) “realtà” (e “verità”) provenienti da un “altro mondo”, ma conduce a (e produce) un affrancamento dal “mondo-limitato-al-mondo”, liberandolo dalla sua “opacità”, attraverso un coraggioso (e, spesso, anche “doloroso”) esercizio di “rischiaramento esistenziale” (Existenz-Erhellung).
Dopo la “lucidità” e lo “sprigionamento”, torniamo alla “ri-lettura”, e quindi alla “ripresa” ed al “re-impegno”.
Cominciamo dal “riprendere”. Da questo verbo, che può articolarsi in modalità “attiva”, ma anche “riflessiva”. Io riprendo … Io mi riprendo.
Ri-prendo la lettura di un libro (dopo averlo messo da parte e, forse, dimenticato). Io “mi ri-prendo”, nel senso che, accorgendomi di poter far meglio, punto con fiducia ad una “seconda lettura”, facendo appello ad una scelta e ad una decisione, nella consapevolezza delle difficoltà da affrontare e delle risorse di cui dispongo per affrontarle.
Non mi adagio (accettando quanto già raggiunto e conseguito). Mi scuoto (mi ri-prendo, appunto) ed innalzo il livello delle mie aspirazioni. In questo (e per questo), come afferma Jullien, questo verbo (ri-prendere) rappresenta il “verbo etico della seconda vita”.
Ma ri-prendere non significa “ripetere”. La “ripresa” rimanda, sì, ad un ritorno, ma anche (e allo stesso tempo) ad uno scarto e a un distacco. Uno “spingersi più avanti”, per puntare a ciò che permette uno sprigionamento ed un ri-dispiegamento di possibilità (traendo profitto dalla lucidità acquisita). Proprio come (si dice di) una pianta, che “si riprende” quando sviluppa nuove radici, riacquistando vigore e vitalità.
L’autentica ri-presa non ripete. Si ri-addossa al passato, per fare meglio emergere la novità, prendendo le distanze da tutto quanto era connotato dalla “banalità”. È “processualità” che permette di riprendere senza ripetere.
Già Kierkegaard aveva fatto della “Ripresa” (Gjentagelsen) una fondamentale “categoria esistenziale”.
Per lui la “ripresa” si pone fra il “ricordo” e la “speranza”. Non è passiva come il “ricordo”, né casuale come la “speranza”. Non è “bloccata” (gravata dal peso del passato), né “inconsistente” (proiettata in un imponderabile futuro). Se il “ricordare” rappresenta un riprendere-all’indietro, la "ripresa” costituisce (in qualche modo paradossale) un ricordare-in-avanti.
D’altronde (come afferma Kierkegaard) “chi non ha fatto il giro della vita prima di cominciare a vivere, non giungerà mai a vivere”. Per questo, “solo chi ha scelto la ripresa vive”. La ripresa è “il bello della vita”.
In questo, Kierkegaard sembra aver colto il valore intrinseco della “ripresa”, nel senso che la “vita” (nel suo stesso movimento) è ripresa. È la “ripresa” a far risuonare la vita in quanto “esistenza”.
Però … la kierkegaardiana “ripresa” (Gjentagelsen) non è (ancora) “seconda vita”. La sua (di Kierkegaard) “ripresa” risulta ancora frutto di una “rottura”, di una “cesura”. I kierkegaardiani “stadi-della-vita” risultano ancora “isolati” (al pari di sfere autonome), come una sorta di “salto” da un ordine all’altro.
Ecco il motivo per cui Kierkegaard ha connotato la “ripresa” sul registro della conversione (orientata verso la “fede-in-un’altra-vita”), non su quello della promozione (interna alla stessa esistenza) verso una autentica “seconda vita”, tramite decantazione e (conseguente) sprigionamento dell’esperienza attraversata.
Per Kierkegaard la “ripresa” non ha la possibilità di procedere nella direzione di uno sviluppo interno all’esistenza stessa. Sviluppo che permette (attraverso l’intenzione consapevole) di conseguire, in una dimensione processuale, non il livello di una “altra-vita”, ma piuttosto il meta-livello di una “seconda-vita” (connotata da un “salto dimensionale” verso una progressiva, e sempre maggiore, autenticità).
La “ripresa effettiva” (come afferma Jullien), allora, “non deve condurre alla conversione”, quanto piuttosto al “re-impegno” verso un “grado più elevato di autenticità esistentiva”. L’esperienza accumulata e ramificata (“prima-vita”) attraverso il “re-impegno” può essere volta (ed utilizzata) come “risorsa” per un’esistenza capace di osare-la-vita in maniera più “radicale” ed “autentica”.
In questo modo, la “vita” può dispiegarsi in esistenza, ossia capacità-di-tenersi-fuori (ex-sistere). Fuori dalle anguste de-finizioni proiettate sulla vita, per aprire-la-vita a possibilità, che non contengono alcuna “essenza pre-costituita”.
È nel “ri-cominciamento” di una autentica “ri-presa” che “si comincia a potere effettivamente cominciare. E questo significa, propriamente, “esistere”!
Ed in questo (a mio parere) si rivela il profondo significato e la fondamentale pregnanza della Existenz-Erhellung (“rischiaramento dell’esistenza”), che Karl Jaspers poneva a fondamento di ogni autentico esistere, come premessa e punto d’appoggio per un rilancio-della-vita e possibilità di una seconda-vita”. Come, poeticamente, conclude il suo saggio, François Jullien:
… Per potere una mattina, finalmente, quando scosto la tenda dalla finestra … cominciare a vedere levarsi, dal fondo della notte, ciò che può essere un mattino. Un mattino “in più”, ma che emerge dal mondo, pur procedendo dal mondo, tale come non l’avevo mai visto.