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  • Ferdinando Brancaleone

ANTROPOLOGIA NEO-ESISTENZIALE: tra Filosofia, Psicologia, Clinica e Ricerca


L’Antropologia neo-Esistenziale si interessa dell’Uomo-in-quanto-Singolo. Della umanità dell’uomo prende in considerazione la specificità della assoluta singolarità e non-riducibilità (e, quindi, della incomparabilità, unicità e peculiarità). Si pone dall’angolo visuale dell’esistenza piuttosto che dell’essenza. Non nega o contesta l’essenza dell’uomo, ma la considera realizzata (compiuta: portata-a-termine) attraverso i singoli-atti-esistentivi. La sua essenza, il Singolo (in quanto tale) la realizza attraverso il proprio-specifico-esistere. Ed il suo esistere (ex-sistere) non può che essere (appunto) “suo”; ossia unico, irripetibile, incomparabile, irriducibile.

Certo, l’uomo (in quanto membro-di-una-specie ed inserito nel processo-biologico-evolutivo), attraverso il proprio vivere (esistenza biologica) si trova “subordinato-alla-specie”: ne realizza ed attua (assieme-a-tutti-gli-altri-uomini) le spinte essenziali. Da questa angolazione, la specie è “superiore” (meta-posizione) rispetto al singolo-individuo-uomo (sub-ordinazione). Il Singolo (i singoli membri), risultano (solamente) “mezzi” per la progressiva-evolutiva attuazione della “essenza-della-specie”. Con tutto quello che ne consegue (il “prezzo”, spesso atroce, da pagare nell’essere-gettati-nella-vita)!

In questo (come proponeva Ludwig Binswanger) l’uomo vive la sua immersione (talvolta “tragica”) nella dimensione dell’Um-Welt: il “mondo-circostante”, l’ambiente (proprio dell’animale-uomo che, in quanto tale, è connotato dall’ Um-Sein), fondamentalmente soggetto alla causalità e al determinismo. Nella dimensione dell’Um-Sein, il singolo-uomo è certamente subordinato alla “Specie”. A livello di Um-Sein (possiamo certo affermare che) l’essenza-precede-l’esistenza.

Ma c’è un… Ma!

Un “Ma” che si trova alla radice di ogni “filosofia”: “Ma … se non fosse (solo) così?!”; “Ma … se la realtà fosse più complessa, ampia e ricca rispetto a quanto sembra apparire?!”.

Si tratta del “Ma” del dubbio-filosofico, che (a sua volta) è in grado di condurre al “Mah!!!” (Wow!!!) dello “stupore-filosofico” (l’aristotelica “meraviglia” come “origine” della Filosofia).

È la (cosiddetta) “Filosofia dell’Esistenza” (del primo Novecento), che più specificamente si è posta dall’angolo visuale (pre-supposto) della messa-in-discussione (circa l’essere umano) della “riduzione” all’Um-Sein.

Già Kierkegaard, nella prima metà dell’Ottocento, aveva rivendicato (con forza e coraggio) la “legittimità” e “necessità” del porre-in-dubbio, per quanto concerne l’Uomo, la concezione (tipica della filosofia idealistica “imperante” nel suo tempo) della sua (dell’Uomo) “riduzione” al “non-essere-altro-che”.

Lo aveva fatto in riferimento all’Idealismo (imperante, appunto), che “risolveva” (e “riduceva”) l’uomo (per così dire) nell’Um-Welt di un Assoluto, in cui ogni “singolarità” non poteva che risultare “astratta”. Aveva avuto il coraggio di esercitare il diritto al “ma”, al porre-in-dubbio, al non-dare-per-scontato. Al saper valutare “da un’altra prospettiva”.

E ne trasse le conseguenze, pervenendo (per quanto concerne l’Uomo) alla “categoria” del Singolo.

Ed è, a partire dal “Singolo” (l’individuo nella sua “unicità”, “irripetibilità”, “irriducibilità”, incomparabilità”) che Kierkegaard dipanerà il suo pensiero e la sua “filosofia dell’esistenza”. È, appunto, dalla “nuova” prospettiva del “Singolo”, che per l’uomo “l’esistenza-precede-l’essenza” (Wow!!! Il “paradosso” di una “filosofia” che ha il coraggio di “contraddire” e “contestare” un suo assunto antico, secondo cui l’essenza non può che “precedere” e “antecedere” l’esistenza, in quanto - per qualsiasi “essere” - esistere vuol significare l’attualizzazione di una essenza-già-data-in-potenza).

Il “Singolo”, allora, pur “gettato” nel “mondo circostante” (quello che Binswanger denominerà appunto Um-Welt) vive altresì la incomparabile unicità del “suo-mondo-proprio” (Eigen-Welt di Binswanger).

Per questo suo essere sempre irriducibile-ad-altro, l’Uomo (in quanto tale) è Singolo. E il Singolo è sempre Individuo! E, in quanto in-dividuo (non-divisibile: unico-in-se-stesso), l’Uomo è drammaticamente “Solo”.

La Solitudine, infatti, rappresenta una “dimensione fondamentale” dell’Uomo in quanto Singolo. La Solitudine (che non è, affatto, “isolamento”) il Singolo non la può sfuggire. La può solo (eventualmente) condividere-con-l’altro.

Ed è in (e attraverso) questa “con-divisione” che il Singolo (oltre che nell’Um-Welt e nell’Eigen-Welt) si trova ad essere sempre immerso anche nel “mondo-della-relazione”: quello che Binswanger denomina Mit-Welt (“mondo-con”).

Sarà nel primo Novecento (dopo l’ubriacatura del Positivismo di fine Ottocento) che tale “innovativa” e “paradossale” (kierkegaardiana) angolazione antropologica verrà “ripresa” e “riattualizzata” (appunto attraverso la cosiddetta Kierkegaard-Renaissance, “Rinascita Kierkegaardiana”), da pensatori, che (al di là delle pur considerevoli differenze individuali) possono essere considerati come rappresentanti della “Filosofia dell’Esistenza” (termine da preferire a quello di Esistenzialismo, che spesso è ancora “dominante” in molti testi di Storia della Filosofia).

A vario titolo, infatti, in varia misura e con connotati diversi, le “categorie” kierkegaardiane di possibilità, di scelta, di rischio, di angoscia (connesse alla “prospettiva-del-Singolo” e della sua “esistenza”) vengono riprese, rielaborate, sviluppate e “ri-visitate” (in vario modo) da tutti coloro che hanno contribuito (a vario titolo) alla “elaborazione” delle prospettive tipiche della “Filosofia dell’Esistenza” (da K. Jaspers a M. Heidegger, da J.P. Sartre a G. Marcel, da M. Merleau-Ponty a N. Abbagnano).

Ma, a mio parere, la Kierkegaard-Renaissance, nel pensiero “esistenziale” del primo Novecento, non sarebbe comprensibile (e, forse, “giustificabile”) senza il riferimento alla “parallela” diffusione della “prospettiva fenomenologica”, proposta da E. Husserl e dai suoi “seguaci” ed “allievi” (molti dei quali saranno, infatti, i promotori di quella “Filosofia dell’Esistenza” che dalla “Rinascita Kierkegaardiana” prenderà le mosse).

La “Fenomenologia” di Husserl ed il “metodo fenomenologico”, infatti, hanno costituito il “substrato” (esplicito o implicito) sottostante al dipanarsi del pensiero esistenziale, al di là della molteplicità dei “temi” e degli “indirizzi” che hanno poi contraddistinto la “Filosofia dell’Esistenza”.

Ed al metodo fenomenologico hanno fatto ricorso molti dei primi propugnatori dell’applicazione dei principi della “Filosofia dell’Esistenza” in ambito “clinico”. Ed è, appunto, la “clinica” che costituirà un ambito peculiare della “Scienza Antropologica” fondata sul “metodo fenomenologico” e sulla “Filosofia dell’Esistenza”, al punto che si è potuto (a buna ragione) parlare sia di “Antropo-Fenomenologia” che di “Antropologia Clinica Esistenziale”.

Nel 1938, Karl Jaspers scrisse un saggio dal titolo emblematico “Existenzphilosophie” (“Filosofia dell’Esistenza”). Ma già nel 1913 (certamente “influenzato” dalla Fenomenologia e mentre era docente di Psicologia presso l’Università di Heidelberg) aveva pubblicato i due volumi della sua “Allgemeine Psychopathologie” (Psicopatologia Generale). Libro “epocale” (come lo definisce U. Galimberti)!

Testo che determinerà un radicale mutamento nel modo di intendere e “leggere” il disagio psichico dell’uomo (fino alla “follia”). Del disagio esistentivo (e della “patologia-psichica”), le “cause” sono da ricercare, per Jaspers, non solo (e non tanto) nella “genericità dell’organismo”, quanto piuttosto nel “senso” che il singolo individuo annette al suo esistere (e, all’interno del suo esistere, al suo sempre “singolare” e “incomparabile” soffrire).

Un “senso” che (come afferma ancora Galimberti) si sottrae all’ordine scientifico della “spiegazione” (Erklären), ma che è percepibile solo attraverso l’ordine ermeneutico della “comprensione” (Verstehen).

Risulta palese, a tal proposito (e a margine di quanto detto), l’influsso della riflessione di Wilhem Dilthey sul pensiero dell’ancor giovane Jaspers. Riflessione che conduce ad un sostanziale superamento del “riduzionismo positivista”. In aperta rottura, infatti, con la concezione positivista (all’epoca dominante), Dilthey aveva già acutamente delineato l’impossibilità di una “scienza psicologica” fondata sui principi metodologici delle “Scienze-della-Natura” (Naturwissenschaften). In altri termini, la Psicologia (e, con essa, la Psicopatologia e la Psichiatria), in quanto “scienze” che concernono l’uomo-nella-sua-peculiarità, sono da ricondurre alle “Scienze dello Spirito” (Geisteswissenschaften).

E la “scienza-dello-spirito” non può essere ricondotta alla “scienza-della-natura”, il cui modello esplicativo (incentrato sulla spiegazione dei “fenomeni”) si rivela del tutto inadeguato alla comprensione (autentica) della “vita psichica”.

In ciò (e per ciò) la fondamentale distinzione, da parte di Dilthey (e di Jaspers), tra “spiegare” (Erklären) e “comprendere” (Verstehen). Dal punto di vista antropologico, la “vita psicologica” va “com-presa” dall’interno, attraverso l’immedesimazione in ciò che è stato provato mediante l’esperienza. E tale immedesimazione-comprensiva (Verstehen) richiede indubbiamente “metodi di validazione” profondamente differenti da quelli propri delle “scienze della natura”.

È a partire, quindi, dalla “Psicopatologia Generale” di Jaspers che si può (a buona ragione) cominciare a parlare di “Psichiatria Fenomenologica”. Approccio che più di ogni altro, nel corso del Novecento, ha intessuto uno stretto (e vitale) rapporto tra “Filosofia dell’Esistenza” e “metodo fenomenologico”. “Psichiatria Fenomenologica” che si inserisce (a tutti gli effetti) nell’ambito di quella che è stata precedentemente denominata “Antropologia Clinica Esistenziale”, e che vede come suoi primi esponenti (oltre a Karl Jaspers), Ludwig Binswanger, Eugéne Minkowski, Medard Boss (per citarne solo alcuni), fino a giungere agli italiani Danilo Cargnello, Sergio Piro, Bruno Callieri ed Eugenio Borgna.

Sul solco della “Filosofia dell’Esistenza”, la prospettiva antropologica ad orientamento esistenziale, nel corso del Novecento, si orienterà, come detto, sempre più (in maniera peculiare e specifica) verso la prassi clinica. “Clinica” intesa come “inchinarsi verso” (klìnein) chi “giace chinato” (klìne: letto), bisognoso di aiuto.

È alla dimensione del Mit-Welt (nella terminologia di Binswanger), della “Relazione” e dell’essere-con (Mit-Sein) che molti esponenti di spicco dell’approccio antropologico fenomenologico-esistenziale (come quelli prima citati, e tanti altri con essi) dedicheranno precipuamente le proprie riflessioni e ricerche, finalizzate ad una “prassi clinica” orientata verso quelle che possono essere definite “Professioni-di-Aiuto”.

Per tale motivo si è potuto, ben a ragione, parlare di Antropologia Clinica Esistenziale.

Tra i rappresentanti di tale orientamento fu certamente Viktor Emil Frankl che, nel Novecento, ha ottenuto maggiore visibilità ed ampio riconoscimento (in ambito non solamente europeo, ma anche internazionale).

Il suo approccio clinico-terapeutico (conosciuto in Italia come “Logoterapia e Analisi Esistenziale” e che meglio può denominarsi Existenzanalyse) si diffuse “in parallelo” con altri analoghi (ma “differenti” e meno conosciuti e divulgati) orientamenti teorico-clinici ad indirizzo esistenziale, tra cui, ad esempio, la Daseinsanalyse (di Ludwig. Binswanger) e la “Daseinsanalytik” (di Medard Boss).

Fu V. E. Frankl (che ricoprì anche la carica di Presidente della Società Mondiale di Psichiatria) a proporre (ed a battersi per) una riumanizzazione della psichiatria e della psicoterapia. Ri-umanizzazione, nel senso (appunto) di dare alla “specificità” dell’Uomo la sua adeguata importanza (spesso misconosciuta dalla prassi scientifico-medico-riduzionista, impregnata di scientismo tardo-positivista).

Ed è nella “dimensione noetica” (nóos, noûs) che Frankl individua la specifica peculiarità dell’individuo-uomo, nella sua “unicità” e “singolarità”. Se la dimensione somatica e la dimensione psichica inseriscono l’uomo nel flusso evolutivo che fa capo (in primis) alla “specie”, la dimensione noetica costituisce l’uomo (essere dotato di noûs) nella sua “singolarità”, “unicità” ed “incomparabile specificità”.

La peculiarità dell’esistenza (ex-sistere) dell’uomo è rappresentata da quel “quid”, per cui ogni “singolo-uomo” è se stesso, e non è riducibile a “niente-e-nessun-altro”. E questo “quid” è rappresentato (e “de-nominato”) da quel termine che il pensiero greco antico aveva espresso (sinteticamente) attraverso il “pregnante” (e difficilmente traducibile) termine noûs (o, anche, nóos).

È nell’ambito della (e attraverso la) dimensione noetica che l’uomo è in grado di “assurgere” alla autoconsapevolezza (“delizia” e “croce” del genere umano!). È nella dimensione noetica che si inscrive quell’ambito di libertà (“croce” e “delizia”!) che fa dell’uomo l’essere che non-può-non-scegliere (in quanto, a livello noetico, anche la “non-scelta” costituisce la paradossale “scelta-di-non-scegliere”).

Se, nella dimensionalità somatica e psichica, l’uomo è “guidato” e “spinto” da impulsi, pulsioni, desideri (che “obbediscono” al freudiano “principio del piacere”), a livello dimensionale noetico il Singolo è “guidato” e “attanagliato” (“delizia” e “croce”!) da un insopprimibile “bisogno di senso” (lógos).

In (e a causa di) tale specifica dimensione, il piacere (somatico e/o psichico) non è (da solo) “sufficiente” a produrre “appagamento noetico”, se non è connotato da una “percezione-di-significatività” (ciò che sto vivendo, al di là del fatto che possa piacermi o meno, per me ha un senso!).

In mancanza di senso (“significato”, “valore”) anche il piacere (presente ed “attivo” a livello dimensionale somato-psichico) potrebbe risultare assolutamente “inappagante” a livello dimensionale noetico!

E, ancora (e per converso), a “livello noetico” potrebbe risultare appagante (in quanto dotato di senso e valore) anche ciò che eventualmente risultasse spiacevole nell’ambito della “dimensione somato-psichica”!

Sono, questi, i “paradossi del noûs”! E l’uomo è un essere paradossale, in questa “strana”, “misteriosa” e “sublime” dimensione dell’esistenza!

Ed elementi “paradossali” configurano anche altre (tra le tante) peculiarità noetiche, su cui V.E. Frankl (e la sua Existenzanalyse) pose l’accento. L’ auto-trascendenza, per cui l’uomo “è spinto” sempre ad “andare-oltre-se-stesso” (verso qualcuno-da-incontrare, verso una persona-da-amare, verso uno scopo-da-realizzare). L’ “auto-distanziamento”, che permette all’uomo di “vedersi-dal-di-fuori”, prendendo “distanza-da-sé” (con quello “sguardo distaccato” che fa dell’uomo l’essere capace di “humor” e di “ironia”).

Sulla base di tali “riflessioni” (e di tante altre, ad esse connesse, sviluppate sempre secondo un’ottica esistenziale), Frankl propose, come accennato, quella “ri-umanizzazione”, di cui poté giovarsi (in varia misura ed “estensione”) l’Antropologia Clinica del Novecento. E fu proprio la “proposta frankliana” a fungere da stimolo ad una ulteriore evoluzione (specialmente in Italia) del pensiero e della prassi clinica ad orientamento esistenziale. Al punto che, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, cominciò a svilupparsi quella che sarà in seguito denominata “Antropologia neo-Esistenziale”.

Appunto dagli ultimi decenni del Novecento, un gruppo di ricercatori (filosofi, psicologi, psicoterapeuti), esperti e cultori dell’approccio antropologico esistenziale (specialmente frankliano), cominciò ad interessarsi specificamente del “linguaggio” e del “fattore-comunicazione” in ambito clinico.

Il linguaggio costituisce un elemento caratterizzante l’uomo, in quanto dotato della dimensione noetica. Il “Mit-Welt” (il mondo della “relazione”) tipico dell’Uomo è mediato dal linguaggio. E il linguaggio è “comunicazione”. Ed ogni “comunicazione” ha un inevitabile “effetto” (influsso) su coloro che alla comunicazione partecipano (“pragmatica” della comunicazione).

Ogni “incontro umano” è caratterizzato, quindi, dal “che cosa” e dal “come” della comunicazione (sia a livello “consapevole”, che - e molto di più - a livello “inconsapevole” e sub-liminale).

Come orientare, allora, la comunicazione? Specialmente in ambito clinico? Affinché nel Mit-Sein (il “con-essere”) di una “relazione-di-aiuto”, improntata ai principi di un approccio antropologico ad orientamento esistenziale, possa (adeguatamente) emergere un “campo-comunicativo-sintonico”? Quella “sintonia” che permette il vibrare all’unisono (sulla stessa “lunghezza d’onda”), pur restando “Singoli” (e, per questo, inevitabilmente “soli”). Sintonia che è l’humus (terreno di coltura) che permette a potenzialità e risorse (ancora inespresse, inutilizzate o “bloccate”) di venire alla luce, di attivarsi, di manifestarsi (finalmente!).

La domanda, in altri termini, concerne il come e-vocare (sintonicamente), attraverso il Mit-Welt (mondo della “relazione-io-tu”), un processo di “rischiaramento dell’esistenza” (Existenz-Erhellung di K. Jaspers), che sia in grado di facilitare una più valida ed “appagante” attivazione delle “risorse noetiche” del Singolo, immerso e “gettato” nell’Um-Welt (“mondo circostante”).

È per offrire possibili risposte a tali quesiti che, sulla base di un’intensa opera di “ricerca teorica” e di (conseguente) concreta “prassi clinica”, l’Antropologia Esistenziale (in Italia) è pervenuta, gradualmente, all’elaborazione di un approccio linguistico-comunicativo, che ha preso forma attraverso le “metodiche”, che vanno sotto il nome di “Logoanalisi Coscienziale”, “Logodinamica Analitico-Esistenziale” e “Logodinamica Subliminale”.

Il “substrato” teorico-scientifico, da cui prendono le mosse tali metodiche linguistico-comunicative, è da ricercare (fondamentalmente) in alcune acquisizioni della Grammatica Generativo-Trasformazionale di Noam Chomsky, così come elaborate, intorno agli anni Settanta del Novecento, dal linguista John Grinder (in collaborazione con Richard Bandler). Elaborazione che diede origine ad un “modello comunicativo” (denominato “Metamodello”), proposto e divulgato per finalità eminentemente “terapeutiche”.

A partire da tali ricerche (e, conseguenti, esperienze applicative) ed attraverso un’accurata indagine circa gli “effetti pragmatici” della comunicazione (Paul Watzlawick), si pervenne a valutare l’opportunità di orientare (in ambito più specificamente clinico) la comunicazione secondo una modalità imperniata su uno specifico “atteggiamento interiore”. Tale atteggiamento, mutuato dall’approccio fenomenologico (anche se “rivisitato” e “rimodulato”) va sotto la denominazione di “Epoché" (“sospensione del giudizio”).

Hans Georg Gadamer, sulla scorta del pensiero di Heidegger, (e, prima di loro, già Nietzsche) aveva sottolineato l’importanza e la “ineluttabilità” dell’ermeneutica. Non è possibile non-interpretare. Ogni “conoscenza” è “interpretazione”.

Riportato sul piano della comunicazione inter-personale, ciò che “tu” comunichi a “me” è sempre (e comunque) “filtrato” dalla mia interpretazione (pre-comprensione) di quanto emerge dalla “struttura superficiale” della tua comunicazione. Rendermi profondamente (e umilmente) consapevole di tale “aspetto ermeneutico” della comunicazione costituisce il primo passo per un atteggiamento di autentica “Epoché”.

Sono, quindi, disposto a tenere debitamente presente che ciò che io com-prendo (ed interpreto) della tua comunicazione non necessariamente corrisponde alla “struttura profonda” di quanto tu intendi comunicare. Sono, quindi, altresì disposto ad entrare in uno stato interiore di messa tra parentesi (Epoché) della mia (inevitabile) interpretazione di quanto tu mi dici. “Messa-tra-parentesi” che non vuole assolutamente avere la pretesa (utopistica) dell’annullamento. So che inevitabilmente ha luogo (l’interpretazione), ma sono disposto (in profondità e con “onestà intellettuale”) a metterla-tra-parentesi, a non darla per scontata. Non pretendo di aver certamente compreso ciò che tu intendi (consapevolmente o meno) comunicarmi attraverso la “struttura superficiale” del tuo “linguaggio”. Non pretendo di avere per chiaro ciò che (forse) non è chiaro ancora neanche a te stesso. Sono disposto a “dissimulare” ciò che so (non nel senso di fingere-di-non-sapere, quanto piuttosto di non-pretendere-di-sapere ciò che “credo di sapere”). E sono disposto a “simulare” la mia ignoranza (non nel senso di fingere di essere ignorante, quanto piuttosto di avere il coraggio della propria ignoranza).

Certo, un tale “atteggiamento interiore” di Epoché non è affatto facile da attuare e perseguire. Richiede (indubbiamente) un coraggioso “lavoro su se stessi” (nel proprio Eigen-Welt: mondo intimo). Così come per la “Epoché scettica” e (ancor più) per la “Epoché Fenomenologica”, anche questo tipo di “Epoché” non può che essere frutto (ed espressione) di una coraggiosa “metanoia” (conversione, radicale mutamento interiore).

Ma è solo a partire da (e sulla base di) tale “rinnovato” atteggiamento di “Epoché”, che le metodiche della Logoanalisi Coscienziale, della Logodinamica Analitico-Esistenziale e della Logodinamica Subliminale possono risultare autentici (ed efficaci) “strumenti” da utilizzare “a livello clinico”, al fine di un effettivo “rischiaramento esistenziale” (Existenz-Erhellung), nonché della stimolazione delle risorse e potenzialità somato-psico-noetiche (latenti, bloccate o inespresse) di chi richiede l’opera di professionisti esperti (e formati) nell’ambito dell’Antropologia Esistenziale.

Le metodiche sopra citate (Logoanalisi e Logodinamica), applicate in ambito clinico (a partire dal fondamentale atteggiamento interiore di Epoché), nel tempo poi conosciute (e divulgate) con la denominazione sintetica di “Psicolinguistica Generativa”, hanno costituito un’iniziale (e riconosciuta) “novità evolutiva” nell’ambito dell’approccio esistenziale, al punto che si è potuto parlare di “Antropologia neo-Esistenziale”.

E la “novità” non ha riguardato solo l’ambito linguistico-comunicativo, ma anche altri campi di “ricerca” (sia “teorica” che “clinico-applicativa”). Tra questi, hanno assunto particolare rilevanza gli studi relativi agli “stati di coscienza noetico-esistentivi”, che hanno consentito di elaborarne (e proporne) una teoria esplicativa (conosciuta e divulgata col nome di “Teoria dell’Alternanza Mentale”), rivelatasi particolarmente utile in ambito clinico-terapeutico.

Ed ulteriori ricerche e studi sono stati condotti (e sono tutt’ora in atto), finalizzati a valutare (con atteggiamento “aperto”, “libero” e “innovativo”) la possibilità di “coniugare” le scienze di frontiera (dalla fisica relativistica alla meccanica quantistica, dalla epigenetica alla scienza olografica, dalla sincronicità neuro-psichica all’entanglement mentale) con le fondamentali acquisizioni dell’Antropologia ad orientamento esistenziale.

Ricerche che stanno schiudendo “prospettive” veramente innovative (fino a qualche decennio fa, “impensabili”) e creando un “impatto” significativo anche in ambito antropologico. Basti (tanto per esemplificare) pensare ai risvolti filosofico-antropologici della interpretazione del “potenziale quantico” di David Bohm, in stretta correlazione con gli studi di Wolfgang Pauli e di Carl Gustav Jung circa il “fenomeno” della “sincronicità”. O, ancora, alle implicazioni teorico-cliniche di quanto appurato scientificamente (e sperimentalmente) da ricercatori d’avanguardia come Dean Radin e Roger Nelson, pervenuti a conclusioni che hanno permesso loro di parlare esplicitamente di “noosfera” e di “scienza dell’intenzione”. Per non sottacere, inoltre, la vasta portata delle possibili implicazioni antropologico-esistenziali delle ricerche (basate sul “rigore” della scienza matematico-sperimentale) del fisico teorico Roger Penrose e del neurobiologo Stuart Hameroff circa il fenomeno dell’entanglement quantistico ed il “meccanismo della coscienza”.

L’Antropologia ad orientamento esistenziale, quindi, se intende essere adeguatamente al passo con i tempi, (rinnovandosi ed evolvendosi come Antropologia neo-Esistenziale), non può misconoscere le acquisizioni cui la Scienza sta pervenendo. Non può “chiudere gli occhi” dinanzi alle illuminanti prospettive offerte dal nuovo paradigma scientifico dischiuso (ad esempio) dall’ “ordine implicato” di Bohm, dal “campo sub-quantistico” di Penrose e di Laszlo, dai “campi morfici” di Sheldrake, dalla “realtà quantistica olografica” di Pribam, dalla “coscienza globale” di Radin e Nelson. Non può non tener presenti tali “stimolanti novità” (con le profonde e ricche implicazioni cliniche, che esse comportano e “promettono”).

Con “coraggio” e “lucidità”, l’Antropologia neo-Esistenziale ha il dovere di procedere di pari passo con le altre Scienze. Con “serietà” e senza indulgere a facili “mode”. Ma anche con impegno di “ricerca” seria e “fondata”. Prendendo in seria considerazione lo “sforzo esistentivo” (nell’ambito di una “scienza rigorosa”) che ha condotto “scienziati d’avanguardia” ad intravedere l’Uomo (nel suo Um-Welt, Mit-Welt ed Eigen-Welt) in una prospettiva rinnovata e ricca di implicazioni evolutivo-esistenziali.

E’ (in conclusione) per rispondere, appunto, a tali “esigenze” di rinnovato impegno (sia teorico che clinico-applicativo) che è nato il “Centro di Ricerche Noetiche” (CRN) con l’annesso Istituto Superiore di Antropologia Clinica (ISAC). In continuità con quanto iniziato presso l’Istituto di Scienze Umane ed Esistenziali (ISUE), presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” e l’Università Europea di Roma, il CRN e l’ISAC sono sorti con lo specifico e precipuo intento di proseguire (ed incrementare) l’opera di studio, ricerca, diffusione ed evoluzione di una Antropologia autenticamente “Neo-Esistenziale”, in una prospettiva che vede coniugate (e “sintonizzate”) tra loro Filosofia, Psicologia, Clinica e Ricerca.

Articolo pubblicato sulla rivista Dasein Journal - Marzo 2018

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