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Lisa De Luca

LE ULTIME PAROLE DI SOCRATE: SUGGESTIONI MISTICHE E IPOTESI ALCHEMICHE


Nel Dialogo Fedone di Platone, Socrate pronuncia una frase che ha dato adito a numerose interpretazioni nel corso della storia della filosofia.

Egli, dopo essersi scoperto per l’ultima volta il volto, dice:

Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio.”(1)

L’interpretazione tradizionale vede in queste parole un ringraziamento di Socrate al dio (il gallo era il tipico animale che veniva offerto al dio Esculapio), ma ne esistono molte altre, tra cui quella molto famosa di Nietzsche che vi vede il ringraziamento per la guarigione da quella che è la vera malattia, ossia la vita. (2)

Non mi sembra di poter escludere nessuna delle interpretazioni date a queste famose ultime parole: mi pare corretto che possano coesistere molte sfumature, e che si tratti piuttosto di coglierne alcune piuttosto che altre, a seconda della sensibilità e della forma mentis del lettore.

A me piace cogliere, qui, in primis, l’aspetto umano, così pregnante nel corso di tutto lo svolgimento del dialogo e mi commuove il “Socrate uomo”, così “reale” di fronte al fatto più umano di tutti, la morte, appunto. Rilevo una “dolcezza”, che chi ha avuto la fortuna di assistere agli ultimi istanti di vita di qualcuno conosce, che armonizza magistralmente la figura del Socrate che è emersa fin qui – ovvero di un filosofo che nelle ultime ore di vita discute di filosofia – che, forse, ce lo fa apparire un po’ lontano da noi.

Però scorgo anche altro.

Innanzitutto, considerata la finezza, non solo filosofica, ma anche poetica e teatrale di Platone, a me pare poco verosimile che queste parole siano casuali e propendo piuttosto per credere che racchiudano qualche messaggio di una certa importanza, in considerazione anche e soprattutto del fatto che sono le ultime.

In secondo luogo, Asclepio corrisponde ad Esculapio, ovvero il dio della medicina: “Il simbolo archetipico del guaritore è il medico divino che porta in sé il male che guarisce. Nella mitologia greca Esculapio, creatura ad un tempo ctonia e divina, strettamente connessa al mito della trasformazione, ovvero della morte e della rinascita”. (3)

In terzo luogo, Socrate sta morendo per aver ingerito della cicuta, quindi un veleno, ma sappiamo che, dal punto di vista etimologico, il greco pharmacon, ovvero “veleno”, è il termine usato anche per indicare la medicina, il rimedio.

Inoltre, sappiamo che Platone sostiene ardentemente, per tutto il corso del dialogo, la teoria per cui è necessario “imparare a morire” il che, secondo me, non significa solo che è necessario prepararsi ad una “buona morte” – se vogliamo sotto l’aspetto etico e psicologico, né sotto l’aspetto strettamente razionale (non dimentichiamo che il Fedone riporta le tre famose prove dell’”immortalità dell’anima” per cui, effettivamente, se si arriva a “dimostrare” che c’è vita dopo la morte e che, anzi, la “vera vita” non è questa, ma quella a cui si va incontro dopo la morte fisica, non c’è ragione, a livello “logico”, di temere il passaggio) – ma piuttosto credo che si alluda qui a molto altro.

Peraltro, Socrate si trova a volto coperto, il che può benissimo essere interpretato come un segno di pudore, ma è difficile non scorgere nella “velatura” la simbologia tipica che allude all’incontro ravvicinato con il divino. E’ usuale, in molti miti e tradizioni religiose e spirituali, l’idea di dover frapporre qualcosa tra sé e il dio, perché l’incontro diretto non è possibile. Certamente questa idea era anche tipica del pensiero greco, che temeva fortemente il contatto diretto con l’elemento divino, ma la ritroviamo anche in molti altri contesti che prevedono una “mediazione” tra l’uomo e Dio.

Il senso della mediazione, della “velatura”, io credo, ha una profonda ragion d’essere nel fatto che rivela una grande consapevolezza dei limiti umani: l’uomo non può “sopportare”, non può “reggere” l’incontro diretto con la divinità, perché ne verrebbe annientato.

Che i Greci avessero questo spiccato senso del limite è noto e che ritenessero il peggiore tra tutti il peccato di hybris, ovvero di tracotanza, di superamento, appunto, del limite assegnato.

Il limite non è da intendersi in senso “negativo”, come a noi verrebbe da dire: il limite è la misura, l’armonia e la misura, il limite non è la mia costrizione, ma il confine “naturale” entro il quale io posso esprimere me stesso al massimo grado. Senza limite non è che ci sia libertà assoluta, piuttosto non c’è possibilità di libertà.

Ecco dunque che, considerando queste premesse, quello che io colgo nelle ultime parole di Socrate rimanda ad una lettura mistica e anche alchemica. (4)

Con questo non intendo che ci sia una “verità storica” in questa interpretazione, cioè il vedere una simbologia tipica della mistica e/o dell’alchimia in queste parole può anche essere solo una operazione di attribuzione di “categorie mentali” non coerenti con il contesto di riferimento e alcune, anche, magari posteriori, ma certamente intendo che – laddove l’esperienza filosofica, mistica, alchemica sia autentica – se ne possono rintracciare profonde analogie se non addirittura tratti perfettamente sovrapponibili.

Se c’è un qualche elemento di coerenza in questa interpretazione, allora Socrate ci sta qui dicendo che si sta compiendo per lui non solo il “percorso filosofico” che lo ha accompagnato per tutta la vita, ma che si sta compiendo anche la definitiva e completa “trasformazione mistica”, ma anche la definitiva e completa “trasmutazione alchemica” e che, per questo motivo, è necessario fare una offerta votiva al dio perché, come tutti i mistici ci ricordano, ad un certo punto interviene la “grazia” e, come tutti gli alchimisti ci ricordano, l’opus magnum può avvenire solo Deo concedente. (5)

Qui l’assonanza con i concetti della mistica è molto profonda: lo sforzo e l’impegno dell’uomo sono importantissimi e imprescindibili, solo il singolo può decidere di incamminarsi in quello che, a seconda del contesto, viene chiamato “cammino di perfezione”, “percorso spirituale”, opus, ma, una volta che l’essere umano abbia fatto tutto il possibile considerando i suoi limiti, appunto, umani, perché si compia l’ultimo “salto” deve intervenire l’azione divina.

L’intervento divino, nella tradizione cristiana, è identificato con la grazia, ovvero con questo atto – completamente gratuito – che Dio concede, ma che potrebbe anche non concedere, secondo criteri che sono spesso stati tramandati come misteriosi e imperscrutabili, non del tutto comprensibili all’umano intelletto.

A questo riguardo, la mistica speculativa getta una luce diversa sull’argomento perché, se è pur vero che rimane la gratuità della grazia, l’intervento divino – se così si può dire – viene altresì inteso come “necessario” laddove il percorso sia stato compiuto “correttamente”. (6)

Ovvero, esiste una sorte di legge “fisica”, necessaria, per cui, nel momento in cui si sia riusciti, davvero, a fare il “vuoto” dentro di sé, Dio – ma meglio sarebbe dire la “divinità” – non può non “invadere” questo vuoto fluendovi dentro o, meglio, attraverso.

Questo tipo di “elevazione” non rimanda ad una trascendenza collocata “altrove”, “lontano”, ma chiede una “redenzione nella materia” e “attraverso la materia” e a me sembra che, così come gli alchimisti operavano proprio sulla materia e attraverso di essa, anche nella concezione platonica non ci sia l’idea di una trascendenza assoluta posta del tutto “aldilà” di questo mondo, quanto piuttosto una ascesi che è mentale, psicologica diremmo noi, spirituale, ma anche fisica. E qui l’assonanza con certo tipo di mistica è davvero profonda, ma forse questo non è strano, perché Platone si può leggere in senso mistico. (7)

In questo senso va anche interpretato, a mio avviso, l’imperativo platonico dell’”imparare a morire”, che non rimanda a pratiche ascetiche di mortificazione corporale né psicologica, quanto piuttosto all’esercizio della filosofia (ma anche della mistica, ma anche dell’alchimia) come un distacco da ogni contenuto finito, limitato, godendo fino in fondo delle cose del mondo, ma con la profonda consapevolezza che nessuna di esse è “assoluta”, né può essere assolutizzata, ma che, anzi, il vero compito è proprio la continua e incessante “relativizzazione”, il riconoscimento della parzialità, della finitezza.

Questo “lavoro” è certamente di tipo mentale, dalla razionalità deve partire, ma non può esaurirsi nella ragione, ad un certo punto deve, per forza, coinvolgere anche le altre dimensioni dell’essere umano: non deve più essere un “capire”, deve essere un “sentire”, dove il sentire non esclude il capire, ma piuttosto lo sublima.

D’altra parte, altre famose parole riportate sempre nel Fedone e che hanno dato molto da pensare, sono quelle relative all’invito che il daimon rivolge a Socrate nei suoi ultimi giorni di vita: “Socrate, componi ed esegui musica”. (8)

Sappiamo che il daimon aveva rivolto questo invito a Socrate per tutto il corso della sua vita e che Socrate aveva creduto di adempiervi dedicandosi alla filosofia, interpretando l’appello del daimon in senso metaforico.

Sentendosi ripetere la stessa cosa quando ormai la sua morte è certa, Socrate viene colto dal dubbio di non aver interpretato correttamente il sollecito e, rinchiuso in carcere, si accinge a comporre versi e a suonare, interpretando, a questo punto, l’invito del daimon in senso letterale.

Anche in questo aspetto, a mio avviso, è difficile non scorgere una affinità profonda con l’esperienza mistica che, giunta al suo culmine, rileva sempre una insufficienza del linguaggio umano per spiegare ciò che sta accadendo.

Il filosofo, come il mistico, percorrono radicalmente e fino in fondo la strada con tutti gli strumenti razionali che hanno a disposizione, in primis con il linguaggio, che è certamente l’ “attrezzo” maestro, ma, giunti ad un certo punto, il linguaggio, le parole, non bastano più, e, forse, non servono proprio.

Nella mistica, di tutti i tempi e tutti i luoghi, al culmine del cammino spirituale troviamo affermazioni sulla indicibilità dell’esperienza, sulla inadeguatezza delle parole, sulla impossibilità di tradurre in termini adeguati quello che sta accadendo.

A questo punto, le scelte possono essere solo due, anzi tre: o si entra nel campo di quella che la tradizione cristiana ha chiamato “teologia negativa”, cioè si dice quello che Dio non-è, dal momento che non si può dire quello che Dio-è perché ogni attributo viene percepito come insufficiente e limitato, o si sceglie la via del silenzio, che più che una “assenza di parola” a me pare una “sublimazione della parola”, oppure ci si affida ad “altro”, ad esempio alla poesia o alla musica, da questo punto di vista considerate simili (così come uguale è il verbo greco che si utilizza per dire “mettere in musica” e “mettere in versi”) e intese come manifestazione più “alta”, ma anche più “rarefatta” del linguaggio umano.

Non mancano casi di mistici che concludono le loro descrizioni del cammino spirituale passando dalla prosa alla poesia, così come è imperante in moltissime (tutte?) tradizioni spirituali l’importanza riservata al suono e alla musica per l’ascesa e l’elevazione.

Platone stesso, sulla scia di Pitagora, riteneva che la musica fosse fondamentale per il perfezionamento dell’anima.

Ma penso anche alle musiche rituali impiegate per i viaggi sciamanici, al nostro canto gregoriano, penso alla ripetizione dei mantra e a molto altro ancora.

Gli scenari di riflessione che si aprono a questo punto sono numerosissimi, e qui li posso solo accennare: penso a molti miti della creazione nei quali il mondo viene creato attraverso la parola e/o il suono, penso agli esperimenti fisici condotti sull’acqua e al fatto che sono state rilevate modificazioni della struttura chimico-fisica della stessa acqua sottoposta all’”ascolto” di differenti tipi di musica e penso che senza acqua non c’è vita e che noi siamo composti in massima parte di questo elemento.

Ecco, se penso a tutto questo e a molo altro, allora mi viene da dire che, come spesso è accaduto nella storia del pensiero, l’essere umano “sa” delle cose, da sempre, ma queste cose, ad un certo punto, vengono come dimenticate, o non più comprese perché cambiano le condizioni che rendevano possibile la comprensione.

Voglio dire: l’uomo moderno, per le strutture mentali che ha, per il processo storico, filosofico, di pensiero attraverso il quale è passato, fa fatica a “credere” che, ad esempio, certi suoni possano “riallineare” il suo “spirito” e magari vede nella musicoterapia una disciplina affascinante, ma non “scientifica”. L’uomo moderno, per “capire”, per “convincersi”, ha bisogno della “prova scientifica”: ha bisogno che gli venga “dimostrato” che, fisicamente, attraverso un esperimento, si “vede” che le strutture molecolari e atomiche si modificano se sottoposte alle vibrazioni prodotte dalle onde del suono.

Questo è il nostro modo di capire, oggi, anche se i cambiamenti in tal senso mi pare che siano evidenti e massicci.

L’uomo di altri tempi, semplicemente, alcune cose le “sapeva”, mi viene da dire, ad un “livello” diverso e non avevano “meno valore” per il fatto che non erano “dimostrate”: le sapeva e basta e le sapeva come “vere”.

La storia del pensiero ha avuto bisogno (“necessariamente”, azzarderei) di passare (“come sempre”, azzarderei) attraverso la negazione per poi arrivare a ri-scoprire quello che già sapeva. Si tratta solo di un cambiamento di “livello”, di “coscienza” e “consapevolezza”.

E qui mi fermo, perché, su questo aspetto, Hegel ha già detto tutto.

Ci sono molti altri concetti, in Platone, che, a mio avviso, si prestano ad una “lettura alchemica”: il “come in alto così in basso” degli alchimisti che mi rimanda alla Teoria delle Idee, la coniunctio oppositorum che mi ricorda il duplice movimento dialettico, ascensivo e discensivo, ma anche il “Mito dell’androgino”, l’opus magnum stesso con le sue fasi di nigredo, albedo e rubedo, la modalità con cui l’alchimista opera sulla materia che è stato assimilato all’opera della levatrice che mi fa venire in mente la maieutica socratica, l’importanza della facoltà dell’immaginazione – che non è la fantasia – fondamentale tanto per gli Alchimisti quanto per Platone, il linguaggio simbolico utilizzato dagli Alchimisti che non può non farmi pensare all’utilizzo del mito in contesto platonico.

In virtù di queste considerazioni, azzardo l’ipotesi che quando Platone e certo tipo di mistica ci parlano di “ascesi”, “elevazione spirituale”, in certi casi anche di “divinizzazione” dell’uomo, di “cammino spirituale”, di “illuminazione”, in ogni modo di quel “qualcosa” che ad un certo punto avviene e non si può spiegare con il linguaggio disponibile e che “dopo” questo “qualcosa” tutto è diverso da prima alludano non solo a una dimensione “psicologica” e “spirituale” intese come dimensioni “non-fisiche”, ma anche – in maniera a volte consapevole e altre no – ad una vera e propria “trasmutazione della materia”.

Questa “trasmutazione”, di alchemica memoria, se vogliamo vederla in termini “scientifici”, altro non rimanda che al famoso “salto quantico” oppure – se preferiamo, ma, secondo me, è la stessa cosa – possiamo vederla in termini “simbolici”, intendendo però il “simbolo” non nella accezione debole del termine come cosa di poco valore, ma nella sua accezione fortissima perché “I simboli, si sa, (…) portano la verità del Logos divino; irrompono nell’ordinario sentire e ri-uniscono chi li sta comprendendo alla realtà che esprimono. Chi capisce il simbolo diventa il simbolo, non è più quello di prima: ora è quello che sa e sa quello che è, contemporaneamente”.

Note

1. PLATONE, Fedone, traduzione a cura di Andrea Tagliapietra, Saggio critico di Elisa Tetamo, Universale Economica Feltrinelli, Milano 1994, pag.241;

2. PLATONE, Fedone, op. cit., cfr. nota 187, pag. 276: non mancano anche interpretazioni più prosaiche, quali, ad esempio, quella che vede in queste parole solo un incoerente balbettamento di un morente, oppure un voto da fare al dio per propiziare la guarigione di Platone che era malato piuttosto che una preghiera affinchè Socrate stesso venga “guarito” dal disonore provocato dalla condanna;

3. C.G. JUNG, Mysterium coniunctionis. Ricerche sulla separazione e composizione degli opposti psichici nell’alchimia, traduzione di M.A. Massimello, Edizioni Bollati Boringhieri, Collana Gli Archi, 1991, pag. 163;

4. Bisogna qui intendersi sui termini: quando uso il termine “mistica” mi riferisco a quel significato di questo termine che rimanda ad una esperienza spirituale, potenzialmente accessibile a tutti, anche se poi, di fatto, non si attualizza in tutti, attraverso la quale c’è una congiunzione o ri-congiunzione con la nostra parte “divina”. Mi riferisco, in particolare, alla accezione del termine rintracciabile nella cosiddetta “mistica speculativa tedesca” (o “mistica renano-fiamminga”) e penso a Margherita Porete e Meister Eckhart e agli studi su di loro magistralmente condotti da Marco Vannini, che illuminano anche tutti gli aspetti profondamente filosofici di questi grandi mistici. Penso ad una mistica, quindi, che allude ad una esperienza spirituale non disgiungibile dall’esercizio della filosofia e che, semmai, è il “coronamento” del percorso filosofico. Quando uso, dall’altro lato, il termine “alchimia”, penso certamente soprattutto alla lettura psicologica e spirituale di questa disciplina, ma senza esclusione della componente “scientifica” e chimica, come avremo modo di vedere. Cfr. MICHELA PEREIRA, La sapienza alchemica fra immaginario e filosofia, introduzione di Mauro Mugnai; Mysterium coniunctionis: C. G. Jung e l’alchimia (Carlo Alberto Cicali, Dario Squilloni, Antonio Tirinato); C. G. JUNG, Psicologia e alchimia, Premessa di Luigi Aurigemma, cura editoriale di M. A. Massimello, traduzione di Roberto Bazlen, interamente riveduta da Lisa Baruffi, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2006;

5. Asclepio, ovvero Esculapio è figura centrale nella mitologia greca ma anche nella simbologia alchemica: rimanda alla trasformazione, alla morte e alla rinascita e, infatti, l’offerta votiva tipica per il dio Esculapio era il gallo, simbolo che in epoca precristiana allude al sole e al rinnovamento, ma anche al fuoco, all’alba, alla rinascita e, con il Cristianesimo, diventa uno degli emblemi di Cristo, paradigma per eccellenza della rinascita dopo la morte;

6. Per il concetto di “grazia” Cfr. T.GOFFI, La grazia e le strutture dell’anima, in AA.VV., La mistica, fenomenologia e riflessione teologica, a c. di E. Ancilli e M. Paparozzi, Roma, Città Nuova 1984, Vol. II;

7. Questo concetto si rileva bene nel Simposio, in particolare nel famosissimo “Discorso di Diotima”, non a caso base fondamentale della mistica. Riporto una opinione contraria in merito, o meglio, un parere che si riferisce ad un certo tipo di mistica, che non è la mistica che prendo in considerazione io in questa analisi: Mysterium coniunctionis. Ricerche…op.cit., pag. 71: “Ad ogni modo la tradizione alchemica differisce dalla mistica, o da un certo tipo di mistica ascetica, in quanto non è in alcun modo una pratica di negazione della corporeità materiale, bensì radicata in essa” (LUIGI AURIGEMMA, Prospettive junghiane, L’esperienza mistica del Nulla e l’esperienza junghiana del Sé, pag. 190 sgg);

8. PLATONE, Fedone, op. cit., nota 25, pag. 251: “Gli interpreti si sono divisi sul modo di tradurre il verbo enteíno: ‘mettere in musica’ o ‘mettere in versi’? (…). La distinzione è significativa soprattutto per noi, in quanto per i greci la poesia era anche musica (la struttura metrica del verso era, insieme, una struttura poetica e una struttura musicale). (…)”.

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