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Lisa De Luca

IL POTERE DELLA PAROLA E LE “PAROLE DI POTERE”


"L'inesattezza del linguaggio non è soltanto un errore in sé stessa, ma fa del male anche alle anime."

(Platone, Fedone)

"L'anima, o caro, si cura con certi incantesimi, e questi incantesimi sono i discorsi belli."

(Platone, Carmide)

"Nel linguaggio, dunque, è il senso delle cose e del mondo. E se l'uomo, a differenza dell'animale, parla, non è perché pensa o perché la sua regione laringea è più specializzata, ma perché, a differenza dell'animale, è aperto al mondo e le cose del mondo hanno per lui un nome. (…) Parlare, infatti, non è emettere suoni, ma esprimere sensi, e non si può credere che un pensiero, senza l'organizzazione simbolica apportata dalla lingua, possa pensare qualcosa."

(Umberto Galimberti)

Che con le parole si possa "cambiare il mondo" il filosofo lo sa.

Ma lo sanno anche lo psicologo, il counselor esistenziale e, se è per questo, lo sanno anche gli scrittori, i giornalisti, i leader politici e i rivoluzionari.

E lo sapevano anche i maghi che facevano gli incantesimi.

E molti altri lo sapevano e lo sanno.

Un conto però è "sapere", un conto è "sapere perché".

I livelli di risposta, a mio avviso, sono più di uno, o meglio, credo che quello che accade e che andremo ad analizzare sia sempre la stessa "cosa", ma che possano essere distinti gradi differenti di consapevolezza rispetto al processo di questo "sapere".

E' possibile "saperlo e basta" oppure si può "saperlo perché", in diverse gradazioni: se poi sia più "vero", più "valido" "saperlo e basta" o "saperlo perché", credo dipenda molto dal contesto culturale e/o dal bisogno di supportare o meno quello che "si sa" con una spiegazione "razionale".

Il grado di consapevolezza non credo cambi il risultato finale, però, nei casi in cui il risultato finale non fosse quello atteso, penso che lavorare sull’aumento della consapevolezza possa dare una chance in più per raggiungere l’obiettivo.

Cercheremo di vedere come.

Innanzitutto, questo straordinario potere della parola è rintracciabile in moltissimi contesti culturali molto diversi e distanti tra loro nello spazio e nel tempo il che, a me, fa sempre pensare che "qualcosa" di "vero" ci sia, non fosse altro che una struttura mentale simile che fa cogliere alcune cose nello stesso modo.

Per partire dal nostro punto di riferimento culturale più vicino, Dio, nell’Antico testamento, crea attraverso la Parola, il Verbo. (1)

Non solo: Dio conferisce anche ad Adamo il potere di "nominare" le cose, rendendolo in qualche modo simile a Lui. (2)

E molti sono i miti di creazione che chiamano in causa parole e/o suoni.

In secondo luogo la parola – il nome proprio in particolare – è considerata fondamentale presso, ad esempio, gli antichi Romani, i quali, nell’espressione "nomen omen" ("Il destino nel nome"/ "Un nome un destino") racchiudono la credenza per la quale nel nome proprio sarebbe inscritto il destino della persona; ma un concetto affine lo ritroviamo anche nell’Ebraismo ove grande attenzione viene posta al nome che si sceglie di imporre al neonato. Idee affini si ritrovano presso i Maori d’Australia i quali, addirittura, cambiano il loro nome proprio varie volte nel corso della vita, e lo scelgono per se stessi quando rilevano di essere "cambiati" e che, quindi, il nome "vecchio" non corrisponda più alle nuove caratteristiche. Qualcosa di simile avviene anche per i "nomi parlanti" utilizzati dagli Indiani d’America.

Di questa importanza attribuita al nome proprio noi abbiamo mantenuto una debolissima eco nell’imposizione al neonato del nome di un Santo particolarmente caro, per esempio, ai genitori e/o nella scelta di attribuire il nome di un parente (spesso defunto, e su questo forse sarebbe interessante ragionare) come ad auspicare che il bambino possa sviluppare le "buone qualità" del Santo e/o del parente, appunto.

In terzo luogo, in tutte le culture esistono le "parole di potere", cioè parole a cui viene attribuita una "forza speciale", siano esse dei mantra, delle formule magiche, delle preghiere, e il "potere" che viene loro attribuito è quello di far "accadere qualcosa".

Interessante notare come siano sempre parole con un "certo ritmo", una "certa ripetitività" e che non prevedano la possibilità di essere modificate a piacimento.

Per provare a capire, quindi, che cos’è questo "qualcosa" che accade – o dovrebbe accadere – e che, di fatto, qualche volta accade e qualche volta no, è necessario intendersi su due aspetti: primo, come e perché l’essere umano utilizza le parole, secondo, che cosa "sono" – davvero – le parole.

Partendo dal primo aspetto, possiamo dire che noi utilizziamo le parole e il linguaggio per "descrivere" il "mondo". Il "mondo" non va inteso come "realtà esterna" a se stante e indipendente da noi, come se esistessero un soggetto e un oggetto, totalmente separati e, diciamo, inseriti in un "contenitore mondo", ma piuttosto come quell’insieme di mutue relazioni/scambi tra soggetto e oggetto che, in certa misura, non sono "accidentali" (cioè non è che ci siano, ma potrebbero anche non esserci), ma che costituiscono la conditio sine qua non del nostro "esser-ci nel mondo", alla maniera heideggeriana.

Il "mondo", quindi, che noi "descriviamo" con le nostre parole è il "mondo esterno" (ovvero quello che noi percepiamo come "fuori di noi"), ma anche – e forse soprattutto – il "mondo interno" (ovvero quello che noi percepiamo come i nostri concetti, pensieri, emozioni).

Questa operazione è in qualche modo "necessaria", nel senso che, se è pur vero che il linguaggio che noi utilizziamo con gli altri ha un valore "sociale" e – oltre a servire per scopi pratici – ci permette di relazionarci con le altre persone, è altresì vero che questa "relazione" è possibile solo in virtù del fatto che noi siamo "in relazione" prima di tutto con noi stessi.

Cioè, noi possiamo/dobbiamo comunicare con gli altri perché la nostra "struttura" (il "come siamo fatti") ci permette/obbliga a comunicare con l’"altro" che è "dentro di noi".

Potremmo anche, al limite, fare a meno di parlare con gli altri, ma non possiamo esimerci dal parlare con noi stessi perché, nel momento stesso in cui pensiamo, utilizziamo obbligatoriamente le parole.

Non è possibile, infatti, non solo "parlare senza pensare", ma soprattutto e prioritariamente "pensare senza parlare", senza questo "sdoppiamento" tra un "io che pensa" e un "io che sa di pensare".

A questo riguardo, a me sembra che quando usiamo l’espressione "pensieri inconsci" non si utilizzino i termini in modo corretto: un pensiero, se è inconscio, non mi sembra, a rigore, nemmeno un pensiero. Questo non significa che non ci sia, ma non lo chiamerei "pensiero" perché, se di questo "materiale" non ho "coscienza" e quindi non so che c’è, certamente agirà in me in molti modi (spesso anche più di un "pensiero cosciente"), ma, non avendone coscienza, non posso "esprimerlo" e "tradurlo" in parole, non posso "pensarlo".

Ora, se non è possibile "pensare senza parole", c’è da rilevare che ogni parola che usiamo – e quindi ogni pensiero che facciamo – non è esattamente e direttamente la "cosa" (ammesso e non concesso che esistano le "cose"), ma è una "interpretazione" della cosa. (3)

Ovvero, noi non possiamo non interpretare, cioè non possiamo non attribuire "sensi e significati", che non sono "posteriori" alle "cose", non sono solo "etichette" che attacchiamo "dopo", ma sono la condizione a priori affinché noi si possa percepire – pensare – nominare le "cose".

"’Ci sono solo fatti?, io direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. ‘Tutto è soggettivo’, dite voi; ma già questa è una interpretazione. Il ‘soggetto’ non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. Nella misura in cui la parola ‘ conoscenza’ ha senso, il mondo è conoscibile; ma esso è interpretabile in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi’. " (F. Nietzche)

Attenzione che un aspetto assai significativo di questa questione è che questo vuol dire, anche, tra le altre cose, che io posso cogliere del mondo solo quello che il mio linguaggio, le parole che ho a disposizione, mi permettono di cogliere. Il che è coerente con quanto appena detto, ovvero che pensiero e parola sono strettamente legati e, al limite, coincidono.

Questo non è solo coerente, è anche molto importante: spesso questa cosa non si sa, e, se si sa, si tende a non considerarla adeguatamente, eppure è uno dei punti di snodo, una delle chiavi di volta più importanti. (4)

Stiamo ora avvicinandoci alla seconda domanda posta all’inizio: che cosa "sono", allora, le parole?

Potrebbe bastare, ma, a mio avviso, non basta, dire che se esiste un "mondo" (ma vale anche se non "esiste" e a me "sembra" solo che esista e qualsiasi cosa voglia dire "mondo") che io "descrivo" con delle parole (che corrispondono e, al limite, coincidono con certi pensieri) e se la scelta delle parole dipende dal "senso" che io attribuisco alle "cose" e/o "fatti" del mondo, e se questa "attribuzione" non è che io possa farla e anche non-farla, ma è la condizione necessaria non solo per "nominare", ma per "cogliere" tout court il "mondo", se è così, se c’è questo rapporto inscindibile tra "cose" e "parole" che funziona in un verso, allora è verosimile che il rapporto funzioni anche nel senso inverso.

Ossia, è verosimile che, agendo sulle parole (quindi sui pensieri) io possa agire sul "mondo" perché vado ad operare sulle "condizioni di interpretazione" del mondo che corrispondono alla possibilità stessa di percepirlo. (5)

E qui siamo nel cuore della domanda e della questione tutta: che cosa "sono" – davvero e in fondo – le parole?

Le parole sono suoni e, quindi, onde, ovvero vibrazioni.

Questa è la spiegazione "fisica" e qui risiede, allo stesso tempo, il grande rischio e la grande opportunità, nelle conseguenze che questa "verità fisica" porta con sé.

La fisica quantistica l’ha ormai spiegato che cosa significa che tutto è in relazione e che tutto è "immerso" in un grande campo vibrazionale, e lo sappiamo, ormai, che non esiste alcuna differenza "ontologica" tra la materia e l’energia e che la materia può essere intesa come energia più "compatta", più "densa", "fitta", "pesante" e l’energia come materia più "rarefatta", "sottile", "leggera".

Rimane un ottimo riferimento il Tao della fisica di Fritjor Capra: "La teoria dei quanti rivela un’unicità di base dell’universo. Mostra che non possiamo scomporre il mondo in unità piccolissime dall’esistenza autonoma. Via via che si penetra nella Materia, la natura non ci mostra nessun ‘fondamento di edificio’ isolato, ma appare piuttosto come una rete complicata di relazioni fra le varie parti del tutto. Il ruolo che l’osservatore riveste in queste relazioni è sempre e necessariamente essenziale. L’osservatore umano costituisce sempre l’anello finale della catena dei processi di osservazione, e le proprietà di qualunque oggetto costituito da atomi possono essere comprese solo in termini di ‘interazioni dell’oggetto con l’osservatore’. Questo significa che l’idea classica di descrizione obiettiva della natura non è più valida (…). Nella fisica atomica, non si può mai parlare della natura, senza parlare, allo stesso tempo, di noi stessi".

Ecco allora che, se l’orizzonte non è quello di un mondo pensato come un "contenitore" dove gli "oggetti" sono distinti e separati e, al limite, possono entrare in relazione uno con l’altro, ma possono anche non farlo, ma è piuttosto quello di un grande campo vibrazionale dove ogni "cosa" è in relazione con le altre e con tutto e dove non ci troviamo di fronte a "oggetti statici" quanto piuttosto a "interconnessioni dinamiche", si può iniziare a comprendere perché è possibile "operare" attraverso delle "vibrazioni", nel caso specifico le parole, intese, appunto, per quello che sono a livello fisico, ovvero onde vibratorie.

"(…) nominando un oggetto ci sintonizziamo perfettamente con la frequenza che gli corrisponde, entrando quindi in contato con esso. (…) Le parole e i nomi sono allora dei ‘supporti’, o dei ‘testimoni’ tra l’immaginazione creatrice e l’oggetto stesso. (…) La frequenza di una parola, vale a dire il numero delle vibrazioni sonore che la compongono, costituisce così un ponte invisibile, ma non per questo meno reale, tra noi e qualsiasi corrente dell’energia cosmica". (6)

E questo è ciò che si "sa", da sempre, in tutte le culture e in tutte le tradizioni spirituali; questo è quello che ci raccontano i miti di creazione che parlano di "Parola divina" e "suono primordiale"; questo è quello che "sanno" tutti quelli che hanno a che fare con le parole, siano essi filosofi o maghi che fanno gli incantesimi, sciamani che usano le "parole di potere", persone che pregano, maestri spirituali che utilizzano la musica per l’"elevazione dell’anima".

E questo è il motivo per cui le formule magiche, le preghiere, le musiche, non sono tutte uguali e una non vale l’altra e non sono previste modifiche a proprio arbitrio e per cui, solitamente, nelle diverse culture esistono delle persone specifiche deputate all’utilizzo delle "parole di potere": perché bisogna conoscere (cosa significa "conoscere" varia da contesto a contesto) che cosa succede utilizzando una parola/suono piuttosto che un’altra e bisogna anche conoscere il "modo" affinché il collegamento parola-oggetto venga "attivato".

Le "tecniche" per attivare il collegamento sono varie e diverse, ma hanno alcune caratteristiche comuni e, io credo, operano a diversi livelli di "profondità".

Per quanto riguarda i caratteri comuni, pur se vengono indicati con nomi diversi, questi possono essere ravvisati fondamentalmente nella "osservazione" e nella "intenzione".

Sappiamo che è "guardando" il "mondo" che noi diamo la "forma": non c’è un mondo esterno fatto in un certo modo, separato da noi, che noi andiamo a conoscere con un grado più o meno corretto di approssimazione alla "verità", ma c’è piuttosto un "campo vibrazionale fluido" – del quale facciamo parte – che assume, per noi, una forma piuttosto che un’altra a seconda delle interazioni che stabiliamo e/o decidiamo di stabilire. E noi tendiamo, naturalmente, a "guardare" sempre nello stesso modo (anche per motivi di utilità e praticità) e quindi a "imbrigliare" dentro certe "forme" la "realtà" la quale, però, di suo, sarebbe "informe", nel senso di "possibilità di infinite forme".

Molti sono gli elementi che intervengono in questa operazione, dei quali non siamo perlopiù consapevoli, e sui quali abbiamo ampi margini di azione, una volta che siano portati a consapevolezza.

Ecco che lo "sguardo nuovo" sul mondo e il "non giudicare" non hanno niente a che fare con precetti moralistici, ma vanno intesi in maniera "letterale", direi. Si tratta di imparare delle "tecniche" per – diciamo così – "disaggregare" la forma che "siamo soliti" imprimere e "aggregare" poi in un'altra maniera.

E’ quello che si fa (o che si dovrebbe fare) in consulenza: cominciare a "guardare" le parole che usiamo normalmente per "descrivere il mondo" cercando, progressivamente, di "definirle" non tanto (o comunque non solo) per comprenderle meglio a livello concettuale, quanto piuttosto per iniziare a "fluidificare" il "modello" che sta "dietro" a queste parole. Questo "modello" è il "pensiero" che abbiamo impresso e che ci fa cogliere il mondo, appunto, in un modo anziché in un altro. Infatti, il focus della consulenza non è tanto (o comunque non solo) il "contenuto" mentale e concettuale, ma piuttosto il "metodo": certo che, in prima battuta, è interessante e utile riuscire a fare un pensiero diverso su una certa cosa, vederla da "un altro punto di vista", ma questo è lo scopo primo, non il fine ultimo. Il fine ultimo a me sembra piuttosto essere quello di riuscire ad afferrare il fatto che non si tratta di sostituire il "vecchio rigido modello" con un "nuovo rigido modello", ma introdurre un grado sempre maggiore di "elasticità" affinchè ogni modello possa essere sentito come "uno dei modelli possibili", ma non l’unico e – soprattutto – non mai "definitivo".

E infatti si opera attraverso le parole (onde vibrazionali) che corrispondono e, al limite, coincidono con i pensieri (onde vibrazionali) che scaturiscono dalla "mappa mentale" non conscia dalla quale attingiamo (onda vibrazionale). Mi viene da dire che può sembrare di lavorare solo a livello mentale, concettuale, "teorico", se vogliamo, e invece stiamo già – per forza – lavorando ad un livello strettamente fisico.

Questo non è altro che il "non giudizio" che, ripeto, non ha niente a che fare con il non dare giudizi "morali", ma certo ha qualcosa a che fare con il non dare "giudizi di valore" perché, in questa "osservazione", è auspicabile non "appiccicare" subito nuove "etichette" appena siamo riusciti a staccare quelle vecchie, ma "lasciar essere" le cose, senza dire/pensare "questo è bello", "questo è brutto", "questo sì", "questo no".

Operazione facile? No, ma forse sì: così semplice da risultare estremamente ardua!

Questa prima parte, che attiene all’"osservazione" (al solve alchemico, mi verrebbe da dire) può – e deve, in certo qual modo – essere seguita (ma non in senso strettamente "temporale") dall’"intenzione" (al coagula).

Qui entriamo più nello specifico del tema delle "parole di potere" che possiamo intendere come "percorsi codificati" per attivare "correttamente" il collegamento con il campo vibrazionale, ovvero per "imprimere" un certo "modello" per "ottenere" un certo "scopo".

Abbiamo detto poco sopra che possiamo o meno "entrare in risonanza" con un certo "oggetto": se "pensiamo" ad una certa cosa siamo già "sintonizzati" sulla sua frequenza perché stiamo già "usando" le onde vibrazionali, in maniera "spontanea" direi.

Questo lo facciamo continuamente, è una facoltà "normale", ma, di solito, non ce ne facciamo niente di specifico.

Con le "parole di potere" – accompagnate da potente "intenzione" – si fa la stessa cosa ma all’ennesima potenza e, pertanto, si può fare "qualcosa di specifico".

Intendo: le "parole di potere" sono "percorsi vibrazionali" specifici che agganciano peculiarmente certe frequenze anziché altre; l’"intenzione" è una forma di pensiero particolarmente "ordinata" e "focalizzata", anche "dettagliata".

Quindi, le "parole di potere", "caricate" con l’"intenzione", mi sembrano delle "reti da pesca" che, "gettate nel campo vibrazionale", "pescano" certe vibrazioni anziché altre e, quindi, imprimono un modello anziché un altro e, quindi, "fanno essere" una cosa anziché un’altra.

Penso, per rimanere nel nostro contesto culturale, alle preghiere.

Innanzitutto sono "parole di potere", cioè sono composte di certi termini e non altri e non si possono modificare a piacimento.

Si "usano" per "chiedere qualcosa" e, quando lo si fa, si focalizza l’"intenzione" proprio sulla cosa che si sta chiedendo.

Se più persone pregano per la stessa cosa, pare che l’"intenzione" abbia una "carica energetica" maggiore.

Esistono "preghiere specifiche" per "casi specifici", così come esistono Santi che si pregano per una certa cosa e altri che si pregano per un’altra. Stesso dicasi per gli Angeli.

Non sarà che si tratta di "percorsi energetici specifici" che vanno a pescare nel campo energetico proprio quella vibrazione per "aggregare" in quel certo modo per far "accadere/manifestare" proprio quella certa cosa?

Ritengo che in questa considerazione risieda una delle ragioni per cui, in molti e diversi contesti culturali, le "parole di potere" sono appannaggio di persone che hanno un ruolo specifico, di solito veicolato in maniera che noi definiamo "religiosa/spirituale" (per esempio lo sciamano o il sacerdote) perché sono quelle che "conoscono" le "regole di pesca" – se vogliamo continuare con la metafora espressa poco sopra. Le "regole di pesca" permettono di "gettare reti" specifiche e diverse a seconda del "pesce" che si intende "catturare".

Questo non significa, io credo, che questo "potere" sia effettivamente esercitabile da pochi, ma penso piuttosto che potrebbe essere appannaggio di tutti.

Penso anche, altresì, che se è pur vero che è un "potere naturale", che abbiamo "in dotazione" in quanto esseri umani, sia necessario un certo tipo di "percorso" per "imparare" ad utilizzarlo, ed è questo il motivo per cui, di fatto, non tutti lo utilizzano.

Il "percorso" a me pare essere di tipo mentale, anche "psicologico" diremmo noi, "religioso/spirituale" (termini un po’ troppo vaghi, forse) e, non da ultimo, "fisico", ovvero mi sembra un "lavoro su se stessi" che coinvolge tutte le "dimensioni" del nostro essere e che ha, al suo interno, diverse "gradazioni", diversi "livelli", per cui non è detto che tutti raggiungano il "livello massimo" anche se – potenzialmente – tutti potrebbero raggiungerlo.

Per tornare a un concetto espresso in apertura e concludere queste riflessioni: un conto è "sapere", un conto "sapere perché".

A qualcuno basta "sapere" o "si affida a chi sa", ad altri serve "sapere perché", o forse si tratta solo di "stadi" diversi di "consapevolezza", non solo a livello individuale, ma anche collettivo.

Il "meccanismo" che agisce alla base, però, a me pare il medesimo.

Certamente mi pare entusiasmante cercare di cogliere sempre più profondamente quali sono, come e perché funzionano le "regole di pesca".

Note

  1. Genesi, 1: "In principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era deserta e disadorna e v’era tenebra sulla superficie dell’oceano e lo spirito di Dio era sulla superficie delle acque. Dio allora ordinò: ‘Vi sia luce’. E vi fu luce. E Dio vide che la luce era buona e separò la luce dalla tenebra. E Dio chiamò la luce giorno e la tenebra notte. Poi venne sera, poi venne mattina: un giorno. Dio disse ancora: ‘Vi sia un firmamento in mezzo alle acque che tenga separate le acque dalle acque’. E avvenne così. (…) E Dio chiamò il firmamento cielo." (e così di seguito, la Creazione viene operata chiamando, ordinando a voce, nominando);

  2. Genesi, 3: "Poi il Signore Dio disse: ‘Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto a lui corrispondente’. Allora il Signore Dio modellò dal terreno tutte le fiere della steppa e tutti i volatili del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo l’uomo avesse chiamato gli esseri viventi, quello doveva essere il loro nome. E così l’uomo impose dei nomi a tutto il bestiame, a tutti i volatili del cielo e a tutte le fiere della steppa; (…). Allora l’uomo disse: ‘Questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne! Costei si chiamerà donna perché dall’uomo fu fatta’";

  3. Questo discorso non vale solo per "realtà complesse", ad esempio concetti e fatti che è più intuitivo capire che possano essere soggetti ad interpretazioni diverse, ma anche per "oggetti semplici", ad esempio un tavolo piuttosto che una sedia i quali, a prima vista, sembrerebbero non passibili di interpretazioni soggettive. Invece, oltre al fatto che è del tutto personale quello che, "automaticamente", io associo – consciamente e/o inconsciamente – ad un tavolo piuttosto che a una sedia (e a quel-tavolo piuttosto che a quella-sedia), è anche del tutto soggettiva e variabile la "percezione fisica" degli oggetti. Inoltre, nella parola "tavolo" io "de-finisco" un certo "oggetto", ma non posso pretendere di "esaurire" quell’oggetto nella definizione perché, negli "oggetti" stessi, c’è sempre molto di più di quello che si riesce a "catturare" con il nome, c’è una sorta di "eccedenza di essere" che non è passibile di essere "imbrigliata";

  4. Per quanto riguarda i "limiti" che ci impone il nostro linguaggio, a me viene in mente il "Mito della caverna" di Platone: una delle possibili letture attiene all’"uscita dalla caverna" intesa come percorso di conoscenza, di progressiva "elevazione", fino a che dalla "caverna" si esce e si coglie la "verità". Ma il mito non si ferma qui, perché l’"illuminato" ridiscende poi nella caverna stessa per raccontare ai suoi compagni quanto ha "visto": questo aspetto viene di solito interpretato come la necessità che spinge colui che ora "sa", che ora ha "capito", di condividere le sue conoscenze con gli altri, ma, io credo, ha anche un’altra sfumatura. Ovvero: il "ridiscendere nella caverna" potrebbe significare il dover ritornare nella "propria caverna" perché l’uscita "definitiva" non è nemmeno possibile. E’ possibile "uscire a tratti" e aumentare/variare il proprio grado di conoscenza/consapevolezza ed è possibile ritornare in una caverna che non è più quella di prima, ma che, in virtù della nuova prospettiva acquisita, magari è una "caverna più ampia", ma non è possibile "stare fuori", i maniera permanente, dalla caverna perché "stare fuori" equivale a "non-stare" affatto;

  5. A questo riguardo, a me sembra che l’esempio kantiano degli "occhiali con le lenti rosa" rimanga insuperato. Kant, con questo esempio, si riferiva sostanzialmente alle categorie di spazio e tempo, ma mi pare che calzi a pennello anche per il nostro ragionamento: abbiamo addosso un paio di occhiali con le lenti rosa, il che ci fa vedere il mondo rosa. Di che colore sia, davvero, il mondo, non ci è dato di sapere perché, se ci togliessimo gli occhiali, non avremmo la possibilità di vedere "il mondo così com’è", ma non potremmo più vedere nulla. Quindi, sostanzialmente, dobbiamo "accontentarci" di dire che il mondo è "come se" fosse rosa, e ragionare all’interno di questo "limite";

  6. PATRICK BERNHARDT, La musica dell’anima. Il potere terapeutico del suono e dei mantra, Gruppo Futura 1997; In questo brano è sotteso un concetto fondamentale, che segnaliamo soltanto, ovvero la correlazione tra la parola e l’immagine, tra udire e vedere, tra suono e luce;

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