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Lisa De Luca

LA PAROLA E L’IMMAGINE: IL “CASO ILDEGARDA”


Ritengo sia interessante analizzare il rapporto che sussiste tra le parole e le immagini, ovvero tra “ciò che si dice/ode” e “ciò che si vede” o anche, si può dire, tra la nostra facoltà linguistica e la nostra facoltà visiva.

Questo rapporto ha delle caratteristiche e delle peculiarità che possono essere spunto di riflessione per coloro che – per professione o per sola ricerca personale – utilizzano, pur in diversi modi, le “parole” come strumento.

Per farlo, vorrei esporre alcune idee – pur senza pretesa di esaustività – prendendo ad esempio l’emblematico caso di Ildegarda di Bingen, grande profetessa medievale, nelle opere della quale emerge particolarmente bene il legame sussistente tra la parola e l’immagine.

Il senso di ragionare sul caso di una profetessa (quindi anche di una mistica) risiede nel fatto che, in queste esperienze “al limite”, si possono cogliere alcuni fenomeni come se li si guardasse con una “lente di ingrandimento” perché – data proprio l’”eccezionalità” – essi si manifestano in maniera più “eclatante” e quindi, per certi versi, risultano particolarmente adatti ad essere analizzati.

Ildegarda di Bingen è una monaca benedettina del XII secolo (1098-1179), Dottore della Chiesa, personaggio eclettico e straordinariamente “moderno” per molti aspetti, grande profetessa ed eccellente esperta nell’Arte Medica, predicatrice e fondatrice di monasteri; da un lato donna tipicamente medievale per forma mentis, dall’altro originale e particolarmente interessante per l’approccio peculiare ad alcune tematiche, Ildegarda ci ha lasciato numerosi scritti, sia di carattere visionario-teologico che di argomento naturalistico-medico-erboristico.

In questo contesto, a noi interessa, in particolar modo, il cospicuo materiale consistente nelle sue famose visioni profetiche.

Un suo tratto tipico è quello di descrivere dettagliatamente le visioni che riceveva e poi di riprenderle punto per punto spiegandole dal punto di vista logico e teologico.

Ora, vanno fatte alcune precisazioni preliminari: indubbiamente, nell’antichità e nel Medioevo, l’immaginazione era una facoltà molto più “utilizzata” di quanto lo sia in epoca moderna e contemporanea, tanto che le stesse “visioni mistiche” erano più frequenti.

Inoltre, l’uomo antico e medievale, aveva una “confidenza” e una dimestichezza assai maggiori delle nostre con le immagini simboliche, tanto che, in molti casi, quello che in altri tempi/contesti era immediatamente comprensibile, per essere per noi intelligibile deve essere spiegato con parole e concetti.

Non solo: in ambiente monastico venivano insegnate delle tecniche di meditazione che si basavano sull’uso di immagini e visualizzazioni cosa, questa, che ovviamente aumentava la dimestichezza con la “percezione” e l’”interpretazione” di ciò che si “vedeva”.

Infine, un aspetto sul quale Ildegarda insiste molto nelle sue opere è l’affermazione secondo la quale ella considerava le sue visioni come “immagini dell’anima” e non immagini degli occhi né della mente. (1)

Questa precisazione è fondamentale: le “visioni mistiche” sono sempre state – e sono – oggetto di numerose interpretazioni, spesso discordanti tra loro, e gli stessi mistici parlano in maniera differente delle loro visioni. Alcuni, per esempio, affermano di “vedere fisicamente”, altri di “sentire” e poi tradurre in immagini, altri ancora di non “vedere” affatto e di utilizzare delle immagini allo scopo di rendere condivisibile la loro esperienza, altri non solo non “vedono”, ma nemmeno fanno ricorso a immagini per condividere la loro esperienza.

La caratteristica basilare delle visioni di Ildegarda è indubbiamente il fatto che “La parola viene dopo l’immagine, il testo segue la visione.” (2)

Peraltro, le visioni di Ildegarda sono così ricche, potenti, dettagliate e colme di simboli che, per quanto la badessa di Bingen sia eccezionale nello spiegarle, si avverte chiaramente la “ridondanza” dell’immagine rispetto alla parola che la descrive.

Questo è un punto che ci interessa particolarmente approfondire, ovvero lo sforzo del linguaggio di “dire più che può” non riuscendo però mai, fino in fondo, a raggiungere la “ricchezza” dell’immagine.

Come se il linguaggio, per quanto definito, anzi, forse proprio per questo, in certo qual modo “cristallizzasse” la visione la quale, invece, è di per sé dinamica nel senso che, se leggiamo la sola visione (senza spiegazione) in tempi diversi, in contesti diversi, con predisposizione d’animo e di mente diversi, quello che “arriva” può cambiare. E infatti cambia.

L’immagine ha una ridondanza e un dinamismo suo “interno” che si “attiva” o meno a seconda delle “condizioni” del lettore.

Questo avviene certamente anche con molti testi scritti, in particolar modo con i cosiddetti “classici”, che, se letti in diversi momenti della propria vita, ad esempio, possono “rivelare” alcune cose anziché altre. (3)

Ma, a me sembra, con l’immagine questo processo è presente all’ennesima potenza.

E’ come se nell’immagine non ci fosse solo il “pensiero” di chi l’ha vista, ma anche tutta la sua esperienza psico-fisica relativa a quell’immagine che, io credo, non è mai perfettamente riproducibile, semmai è esperibile in maniera personale e singolare, ma non mai uguale.

Credo che l’immagine sia “ridondante di significato” non solo per i destinatari, ma per lo stesso “visionario”.

Per analogia, penso ad un pittore che fa un quadro, e poi magari ci spiega che cosa voleva “dire” con la sua opera: ora, per quanto lui ci spieghi “bene” il messaggio che voleva comunicare e, ipotizzando di capirlo perfettamente (cosa che già è impossibile), e ipotizzando anche che l’artista ci spieghi tutti i sensi/significati che stanno “dietro” (impossibile anche questo), comunque noi che guardiamo non potremmo mai, in alcun modo, “sentire” quello che ha sentito-pensato-provato lui nel momento in cui, ad esempio, ha aperto il tubetto di colore giallo e l’ha mescolato con il blu, e l’ha miscelato quel tanto per fare quella sfumatura di verde, non un’altra e non mai riproducibile perfettamente, e cosa ha sentito la sua mano a contatto con il pennello mentre stendeva il colore sulla tela, e cosa suscitava il lui quel movimento e le suggestioni che il giallo, il blu, il verde provocavano nella sua anima. Certamente possiamo provare a “ripetere” l’esperienza, ma certamente il mio “giallo” non sarà il suo, il pennello provocherà una sensazione diversa sulla mia mano, il verde evocherà qualcosa di diverso nella mia mente, e così via di seguito. E lo stesso pittore potrà, al massimo, “ricordare” le sensazioni/emozioni provate nel momento dell’esecuzione dell’opera, anche rievocarle, magari, ma l’esperienza, in sé, rimarrà unica e singolare. Come tutte le esperienze.

Questa prospettiva è particolarmente vivida nelle immagini – e successive spiegazioni – che ci ha lasciato la badessa di Bingen.

E’ chiaramente percepibile che, per quante parole vengano spese per “spiegare” le immagini e per quanto Ildegarda sia maestra in questo, le sue visioni contengano molto di più di quanto lei stessa riesca a dire, lasciando una meravigliosa “porta aperta” al lettore, che può, non solo “pensare” anche altro in riferimento ai concetti espressi e “metterci del suo” nell’interpretazione, ma anche “vivere” quelle visioni – che pure non gli “appartengono” - in un modo che sarà sempre unico, personale, singolare.

Ildegarda, come tutti i mistici, fa questo immane sforzo per “dire l’indicibile” ed è chiaro quanto “stressi” il linguaggio per spingerlo al limite, ma sa bene – e lo capisce anche chi legge – che “Bisogna chiamare le cose in qualche modo restando però ben consci dei limiti del linguaggio umano. La realtà supera i nostri simboli di scrittura, anche se questi, (…), possono essere considerati come delle ‘parole d’ordine’ che ci danno l’accesso ad una certa immagine delle sfere dell’invisibile”. (4)

Ecco, allora, che “L’immagine si presenta qui come un dato primario della psiche piuttosto che come figura che illumina il significato della parola scritta”. (5).

Se le immagini sono sempre “ridondanti” rispetto alla parola, allora, perché scrivere?

Per due motivi, credo: innanzitutto i mistici sentono forte la necessità di condividere le loro esperienze, anzi, questa è proprio una peculiarità che caratterizza l’autentica esperienza mistica (6). Questo è già stato chiaramente rilevato da Platone nel celeberrimo “Mito della caverna” ove il prigioniero che è riuscito a liberarsi ed è uscito dalla caverna con un progressivo cammino di conoscenza che lo porta, infine, a “vedere il sole”, non può esimersi, poi, dal ritornare dai suoi compagni – ancora incatenati – per riferire quanto ha “visto”. E’ evidente che, per condividere – o, almeno – provare a farlo, si rende necessario “tradurre” in parole il contenuto della “visione” perché gli esseri umani non possono comunicare quanto vedono se non attraverso la mediazione del linguaggio. (7)

Un altro motivo che spinge il mistico a scrivere, io penso che non attenga alla “dimensione pubblica”, ma piuttosto alla sua “dimensione privata”: è solo attraverso lo “sforzo” di mettere in parola quanto ha visto che egli opera un profondo “lavoro” (mi verrebbe da dire “psicologico”, ma anche “spirituale”) su se stesso.

Il mistico si “costringe” a integrare una esperienza che è di tipo sensoriale-emotivo con una dimensione mentale-concettuale: egli cerca le parole, le sceglie, le definisce e, per fare questo, deve, per forza, rivolgersi al suo interno e, quindi, fare una operazione di “chiarificazione interiore” e di “ordinamento” del materiale immaginativo (sia esso visivo o meno).

In certo qual modo, questa operazione prettamente intellettuale, si rivela essere una profonda “indagine” interiore e anche una grande prova di mediazione tra il “corpo” e lo “spirito” che ha, a me sembra, un forte “sapore alchemico”.

Il mistico deve, in questa fase, possedere l’arte del solve et coagula: non può “sciogliere” troppo, cioè non può rimanere troppo vago nel descrivere quanto ha visto/esperito, pena la perdita di contenuti e simboli, ma non può nemmeno “solidificare” troppo, altrimenti la sua visione/esperienza perde il carattere “vivo” e dinamico e finisce “immobilizzata” dentro a parole che diventano “morta lettera”, cosa, questa, che andrebbe a inficiare il valore più verace della sua stessa esperienza. (8)

Nel testo l’intuizione prende corpo. Al di qua della scrittura, la visione; al di là della scrittura, il testo. La scrittura produce una trasformazione, è trasformazione. E’ lo strumento attraverso cui si opera l’alchimia, ma è anche il materiale che, scomponendosi e ricomponendosi secondo infiniti schemi, crea una nuova e unica sostanza. La scrittura è, in definitiva, il limen in cui si compie il passaggio dall’immagine alla parola.” (9)

Scorgo nel rapporto visione-parole in Ildegarda qualcosa di simile al rapporto mito-logos in Platone.

L’utilizzo che Platone fa del mito è del tutto peculiare: non si tratta di una “favola”, di una “invenzione della fantasia” irrazionali, ma piuttosto di un “racconto” meta-razionale e ultra-razionale.

Laddove il “potere della parola”, quindi della ragione, del logos, sia stato esperito e percorso fino in fondo, laddove la facoltà raziocinante umana sia stata esercitata – rigorosamente – fino ai suoi estremi confini, sorge la necessità di “dire ancora qualcosa” che non è più “contenibile” né esprimibile attraverso il linguaggio.

A questo punto estremo, Platone – che è “il maestro” dell’utilizzo del ragionamento logico e del linguaggio - ricorre al mito, cioè a un’immagine, che è in grado non già di esaurire in un contenuto finito quanto non si riesce più a dire, ma piuttosto che è in grado di “aprire un varco” verso l’”oltre”. E il mito, l’immagine, si appellano non tanto alla facoltà raziocinante dell’uomo, ma cercano di “muovere”, di “fare leva” su altre sue facoltà. (10)

In questo senso non credo che si intenda “sminuire” il logos, credo piuttosto che si voglia salvare l’”unità” e la “completezza” dell’essere umano in tutte le sue dimensioni perché, se è vero che la facoltà raziocinante è la caratteristica peculiare dell’uomo, non è la questa che fa l’uomo “Uomo”. Non da sola.

In fondo, le esperienze “spirituali” autentiche non abdicano alla ragione e le esperienze “filosofiche” autentiche non sono solo razionali.

Per quanto attiene al particolare uso del linguaggio profetico in Ildegarda di Bingen, val la pena ricordare che la badessa ci ha lasciato anche una “lingua ignota”, ovvero un alfabeto di ventitrè lettere il cui scopo non è ancora del tutto chiaro.

Alcuni studiosi hanno ipotizzato che questo alfabeto volesse essere un tentativo di creare una sorta di “lingua universale”, altri vi hanno scorto un possibile utilizzo in campo musicale – ricordiamo che Ildegarda fu una grande musicista e che riteneva che la musica avesse fondamentale importanza anche nel coadiuvare le sue “terapie mediche” – la maggior parte concorda sul fatto che si tratti di un linguaggio segreto, forse ricevuto per illuminazione divina.

In tutti i casi, è interessante sottolineare come anche l’operazione di creazione di una lingua nuova possa rientrare nell’ambito dell’analisi sopraesposta, ovvero nel tentativo – in questo caso davvero estremo – di “dire l’indicibile”, che poi è il grande compito/problema di tutti i mistici. (11)

Abbiamo ricordato all’inizio che Ildegarda di Bingen è una “profetessa” e quindi anche una “mistica”: vale la pena di specificare meglio questi termini.

A rigore, il “profeta” è colui che, per ispirazione divina, predice il futuro o rivela fatti ignoti alla mente umana, mentre il “mistico” è colui che ha esperienza diretta di contatto con il “divino”. Può capitare, e di fatto capita, che queste due accezioni possano coesistere, almeno a tratti, nell’esperienza di un singolo individuo. Certamente il “profeta” è sempre un “mistico” (cioè ha esperienza diretta del “divino”), mentre il “mistico” non sempre è anche “profeta” (cioè può avere una esperienza diretta del “divino” senza che questa implichi rivelazioni sul futuro o su fatti ignoti alla mente umana).

Questa specifica è interessante perché “Nell’uomo profeta, la parola non è più soggettiva: è una comunicazione, la trasmissione obiettiva di un messaggio captato alla fonte divina; è risposta ad un appello; non è più, nel senso stretto del termine, parola, ma vocazione”. (12)

Ma cosa significa “vocazione”?

“Vocazione” significa, in primis, “chiamata”. Ma la “vocazione” è una “chiamata” che ha una sfumatura peculiare: significa “chiamata per far venire”, “invitare”, “convocare”.

Ora, questo presuppone che ci sia “qualcuno” e/o “qualcosa” che chiama e “qualcuno” e/o “qualcosa” che risponde, altrimenti – a rigore – non si può neanche parlare di “vocazione”.

Se alla “chiamata” non segue la “risposta”, il processo si arresta; se, invece, alla “chiamata” segue la “risposta”, si avvia il “processo”, il dia-logo.

E qui siamo ad uno snodo che a me pare fondamentale: Ildegarda – in maniera prioritaria – viene “chiamata” tramite “visioni”, quindi “immagini” il che, a prima vista, può sembrare paradossale e anche parzialmente scorretto dal punto di vista “letterale”, se intendiamo il termine “chiamare” solo in relazione all’utilizzo della parola/voce/suono.

E qui, invece, risiede il nocciolo profondo della correlazione, dell’intima unione tra “parola” e “immagine”.

Ildegarda è perfettamente inserita nella cultura e nell’impianto teologico medievali che affondano, come noto, le loro radici nel modo di pensare dei Greci. E sappiamo che il mondo greco era una “cultura del vedere” ovvero che, tra tutti i sensi umani, riservava alla “vista” una certa “priorità gerarchica”. Ma “vedere” non sta solo – è inteso – nel significato letterale del termine, attenendo anche al “vedere” intelligibile. (13)

E’ utile, però, procedere con l’analogia tra il “vedere fisico” e il “vedere dell’anima/mente” per esplorare agli estremi limiti a cui ci conduce.

Ora, per “vedere” è necessario che ci sia “luce”: non bastano un “soggetto che vede” (o che può potenzialmente vedere) e un “oggetto visto” (o potenzialmente visibile); ammesso e non concesso che si possa parlare di “soggetto” e “oggetto”.

La luce, quindi, intesa come “mezzo”, ma anche come conditio sine qua non della “visione”.

Solo che più si “sale” – potremmo dire nel “percorso spirituale”, ma anche “conoscitivo” – più la luce si fa intensa, fino ad arrivare ad un grado tale di luminosità da non essere più il “mezzo indispensabile” per “vedere”, ma da divenire accecante e, quindi, impedendo completamente la “vista/visione”.

Non è infatti un caso che la teologia sia sempre stata irremovibile sulla impossibilità della visio facialis di Dio in questa vita e che molti mistici siano stati considerati eretici per averla invece sostenuta. (14)

E non è casuale nemmeno, teologicamente - ma anche “spiritualmente” - parlando, la figura dell’Angelo, “messaggero” che porta un “annuncio”, ma, come ci ricorda Massimo Cacciari: “(…) il suo ‘annuncio’ non riguarda un farsi-visibile dell’invisibile, un tradursi-tradirsi dell’invisibile nel e per il visibilmente percepibile, bensì la possibilità per l’uomo di corrispondere all’invisibile in quanto tale, a quell’Invisibile di cui l’Angelo è custode proprio nel momento stesso in cui, nelle sue forme, lo comunica”; e ancora: “L’Angelo, (…), manifesta l’inconcepibile ricchezza dell’Invisibile, l’infinità dei nomi del Non-dove e suscita, insieme, la straordinaria vis immaginativa che abita l’uomo”. (15)

Ecco, le visioni di Ildegarda si collocano proprio in questo punto di equilibrio, sempre instabile: “cadere” da un lato significa entrare nella sfera dell’assolutamente inconoscibile e indicibile, “cadere” dall’altro significa, invece, “incatenare” con parole “finite” e “de-finite” qualcosa che non può e non deve essere “finito” e “de-finito”, pena l’arrestarsi del processo conoscitivo-spirituale.

Mi rendo conto che questa può sembrare una digressione dal tema centrale, ma l’ho ritenuta utile per tentare di esprimere l’idea affermata all’inizio e cioè che, portando i discorsi al “limite”, alcuni fenomeni possono essere meglio rilevati proprio perché si “espandono” e si “ingrandiscono”.

Potremmo continuare ancora: penso agli approfondimenti sull’affascinante tema dell’Angelologia che, a questo riguardo, avrebbe ancora molto da dirci; penso – come sempre – a Platone, inesauribile fonte di riflessione; ma penso anche alla Cabbala ebraica; penso alla ricchissima simbologia dello “specchio” e, non da ultimo, ai contributi scientifici che potrebbero illuminare ulteriori aspetti della questione.

In questa sede, però, è forse più utile riprendere il filo de discorso e avviarsi ad una “conclusione”, se così si può dire.

E dunque, come mi piace dire che “la mistica è la musica della filosofia” alla maniera del sopraesposto rapporto mito-logos, così mi viene da dire che “l’immagine è l’angelo della parola” e questo ci può interessare anche nella “pratica” e nell’”operatività” quotidiane.

Ovvero: ribadendo che le parole e il linguaggio sono i nostri “strumenti” principali, in quanto esseri umani, per accedere al cammino di conoscenza; ricordando che le parole sono la “via di accesso” ai nostri pensieri con i quali, al limite, coincidono; sottolineando che mai va abbandonata l’operazione – tipicamente filosofica – di “de-finizione” dei termini, anzi, che essa va praticata costantemente e con grado sempre crescente di “profondità” (o di “altezza”…che è lo stesso…), sullo “sfondo” di questo va tenuto sempre presente, io credo, un altro “scenario” fondamentale.

Va cioè tenuto presente che la “parola” umana mai “esaurisce” la “cosa”, mai la “afferra” completamente, mai “coincide” con la cosa stessa.

Ed è “bene” che sia così, altrimenti il processo conoscitivo si arresterebbe.

La “tensione” che si instaura tra “la parola che cerca di afferrare” e “la cosa che cerca di fuggire”, in questo incontro-scontro tra la “parola” e l’”immagine” dove l’una tenta di introdurre il “limite” e l’altra cerca di “aprire all’illimitato”, entrambe sapendo che nessuna delle due può né deve “vincere” definitivamente sull’altra, in questa “tensione”, appunto, si gioca la “partita della conoscenza”.

Si gioca là dove la parola cerca con tutte le sue forze di “dire”, sapendo che non può dire “tutto”, ma non “avvilendosi” per questo, anzi, proprio per questo “spingendo” sempre di più.

Si gioca là dove l’immagine fa “intravedere” quello a cui la parola aspira, “apre spiragli” su “mondi ulteriori” di significato, ricorda costantemente al linguaggio la sua finitezza, ma anche il suo intimo anelito a trascendersi.

Parola-immagine, immagine-parola che si specchiano e ri-specchiano continuamente e reciprocamente con una modalità di rapportarsi tra loro che, a me sembra, è davvero molto simile al rapporto d’amore che si mette in moto quando arriva Eros, quell’Amore-Filosofo, figlio di Poros e Penia, di cui ci parla Diotima, per bocca di Socrate, nel Simposio platonico.

Immagine-parola, parola-immagine, il cui rapporto, per analogia, mi sembra simile all’attività del Demiurgo che, infatti, per “plasmare” le “cose”, “guarda” le Idee, portando “l’ordine nel disordine”, “il limite nell’illimitato”. Ma il Demiurgo non è il Principio Primo, così come l’”immagine” non è ciò a cui si “riferisce”.

Ancora una volta: solve et coagula.

Ma “quanto” solve e “quanto” coagula?

Potremmo rispondere, “in maniera greca”: “secondo misura”.

Ma “quanto” è questa misura?

Non c’è, per “misurare” questa “misura”, una “formula matematica”. O forse sì.

Note

1. Cfr. PAOLA TINE’, L’immagine dell’anima nel misticismo profetico di Ildegarda di Bingen, Appunti di Antropologia cognitiva – 3. Riportiamo uno dei tanti passi in cui la stessa Ildegarda spiega di che tipo sono le sue visioni, da ILDEGARDA DI BINGEN, Il libro delle opere divine, a c. di Marta Cristiani e Michela Pereira, con un saggio introduttivo di Marta Cristiani, traduzione di Michela Pereira, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2003, pag. XXXI: “Queste cose non le ascolto con le orecchie del corpo e neppure nei pensieri del mio cuore, e non le percepisco per interazione dei miei cinque sensi, ma unicamente all’interno della mia anima, con gli occhi aperti, per cui nelle mie visioni non subisco mai il venir meno dell’estasi: le vedo in stato di veglia, di giorno e di notte”;

2. TERESA LUCENTE, Il potere alchemico della scrittura di Ildegarda di Bingen, Pubblicato in “Annali” della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Siena, vol. 30, 2009, pp. 73-96, pag. 9;

3. Cfr. UMBERTO ECO, I limiti dell’interpretazione, Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas S.p.A., Milano 1990;

4. PATRICK BERNHARDT, La musica dell’anima. Il potere terapeutico del suono e dei mantra, Gruppo Futura 1997;

5. TERESA LUCENTE, Op. cit., pag. 10;

6. Cfr. AA.VV., La mistica. Fenomenologia e riflessione teologica, a c. di E. Ancilli, M. Paparozzi, Città Nuova Editrice, Roma 1984;

7. Si potrebbe pensare che esistano forme di “condivisione” di immagini di tipo immediato, per esempio la fotografia o la pittura. A ben riflettere, però, anche se questi tipi di espressione e condivisione non utilizzano la “traduzione” in parole, non si esimono comunque dall’utilizzare un “mezzo”, sia esso la macchina fotografica piuttosto che il colore e la tela. Non rilevo casi di possibilità di condividere una esperienza personale, unica, irripetibile, irriducibile che non preveda la “mediazione”, di qualsiasi genere essa sia;

8. I mistici non sono sempre e necessariamente dei “visionari”, ma, comunque, anche nel caso “non vedano niente” non è diversa l’operazione che devono fare per condividere la loro esperienza che, in quanto “mistica”, appunto, attinge sempre a sfere “altre” che mal si prestano ad essere “contenute” nell’umano linguaggio;

9. TERESA LUCENTE, Op. cit., pag. 19;

10. GIOVANNI REALE, Storia della filosofia antica, Vol. II, Vita e pensiero, Milano 1992, pagg. 47;52, i.p., pagg. 48-49: “(…) il mito cerca una chiarificazione nel logos, e il logos un completamento nel mito. Alla forza della ‘fede’ che si esplica nel mito, Platone affida, talora, il compito di trasportare e di elevare lo spirito umano in ambiti e sfere di superiori visioni, alle quali la pura ragione dialettica, da sola, fatica ad accedere, ma delle quali può tuttavia prendere mediatamente possesso; talaltra, invece, Platone affida alla forza del mito il compito, quando la ragione sia giunta ai suoi limiti estremi, di superare intuitivamente questi limiti e così di coronare e completare questo sforzo della ragione, elevando lo spirito ad una visione o almeno ad una tensione trascendente”;

11. Cfr. PAOLA TINE’, Op. cit.,

12. ANDRE’ NEHER, L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Introduzione di Sergio Quinzio, Casa Editrice Marietti S.p.A., Genova 1997, pag.29;

13. Citiamo, ancora una volta e sopra tutti, Platone e, come esempio chiave, di nuovo il cammino “ascensionale” dal buio alla luce espresso in maniera insuperabile nel “Mito della caverna”;

14. Sulla questione della “visione diretta”, a me pare che, spesso, teologi e mistici non si siano capiti proprio per un problema linguistico e terminologico, in ogni modo non possiamo approfondire oltre questo aspetto, pena l’andare troppo lontano dal centro della presente trattazione;

15. MASSIMO CACCIARI, L’Angelo necessario, Adelphi Edizioni S.p.A., Milano 1986, pag. 17.

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