“DOV'E' IL NOȖS, LA’ E’ IL TESORO”
“Dov’è il noûs, là è il tesoro”.
Questa espressione si trova ne Il Vangelo di Maria, uno dei cosiddetti “vangeli aprocrifi”, attribuito a Myriam di Magdala, ovvero La Maddalena.
Il testo è stato scritto da una donna e, se non proprio scritto direttamente da una donna, sicuramente da una figura femminile ispirato.
La donna in questione, peraltro, è colei che la tradizione ci presenta come “la peccatrice” per eccellenza: certamente una delle figure femminili che faceva parte del seguito di Gesù, forse la sua compagna se non addirittura sua “moglie”, da tutte le fonti riportata come colei che, per prima, incontrò Gesù dopo la resurrezione e fu la destinataria delle prime parole che Egli pronunciò dopo questo che è “il grande evento” del Cristianesimo.
Tutti questi elementi fanno de Il Vangelo di Maria un testo assai significativo sotto molti punti di vista.
Questo apocrifo si presta ad essere letto e interpretato da diverse angolazioni: lo possiamo analizzare dal punto di vista storico, religioso, antropologico, spirituale, filosofico e addirittura psicologico-psicanalitico, usando una terminologia moderna.
L’interesse che può rivestire per noi si snoda in diversi punti, tuttavia, a me sembra, uno dei contributi più significativi che ne possiamo ricavare riguarda le indicazioni che ci vengono proposte per intraprendere il nostro personale cammino di conoscenza – di noi stessi e del mondo – che certamente ricalca alcuni temi ricorrenti di tutti i “cammini spirituali”, ma che, in maniera particolarmente spiccata, parla il linguaggio del “femminile” e si rivela essere un modello di approccio all’uomo che, in termini moderni, potremmo definire “terapeutico”.
In quest’ottica si inserisce la frase riportata in apertura, “cuore pulsante” del Vangelo di Maria. (1)
Come tutti i vangeli apocrifi, anche Il Vangelo di Maria è di “sapore gnostico”, pertanto ha uno stile e dei contenuti piuttosto “esoterici” e la “conoscenza” occupa un ruolo di primo piano in quello che, come accennato, potremmo definire un “cammino spirituale” ma anche un “percorso terapeutico”; tuttavia, il “tipo” di conoscenza che viene qui richiamato ha alcuni caratteri che vale la pena di approfondire perché risultano poco praticati nel nostro comune modo di vedere il mondo o, comunque, presentati in una maniera che può – io credo – rivestire un certo interesse nella nostra personale ricerca.
Innanzitutto, è assai interessante notare come, nel testo, ricorra in diversi punti la contrapposizione tra l’approccio “maschile” e l’approccio “femminile” agli insegnamenti di Gesù: i discepoli (maschi) chiedono a più riprese a Maria di dir loro che cosa il Maestro “ha detto” e Maria (donna) risponde sempre che cosa lei “ha visto”.
Non è difficile scorgere qui la consueta questione su quale sia la facoltà umana prioritariamente coinvolta nel processo conoscitivo, riassumibile nelle domande: “è più importante ‘udire’ o ‘vedere’?”, “si accede alla conoscenza soprattutto attraverso la ‘parola’ o attraverso l’’immagine’?”.
Tradizionalmente, è uso contrapporre le “culture dell’udire” alle “culture del vedere”: un esempio fra tutti è la classica affermazione per cui la cultura ebraica sarebbe eminentemente una “cultura dell’udire” perché è la Parola di Dio a costituire il fulcro della rivelazione, mentre la cultura greca sarebbe una “cultura del vedere” perché l’accesso al sapere avviene in maniera precipua attraverso la “facoltà visiva”, sia essa una “vista” fisica o intelligibile.
A ben vedere, però, la distinzione tra queste due facoltà – sempre e comunque considerate le due facoltà più importanti dell’essere umano – non è mai così netta: di solito convivono l’aspetto “visivo” e quello “uditivo” e la contrapposizione è più apparente che reale anche se, certamente, in alcuni contesti prevale un aspetto e in altri l’altro.
Indubbiamente, a livello archetipico, la facoltà uditiva appartiene al “maschile” e la facoltà visiva è propria del “femminile”. Il “maschile”, infatti, è la parte razionale, calcolante, la capacità di analisi, il “cervello sinistro” se vogliamo, e si esprime di preferenza attraverso le parole e il linguaggio; il “femminile”, all’opposto, è la parte “emotiva”, quella che “comprende con sguardo d’insieme”, la capacità di sintesi, il “cervello destro” ed è quindi meglio esprimibile attraverso immagini.
“Maschile” e “femminile”, ovviamente, non si riferiscono all’uomo-maschio e alla donna-femmina, ma alle parti maschili e femminili che convivono in ognuno di noi e che sempre entrambe ci sono, anche se può predominare una rispetto all’altra, cosa che, peraltro, di solito avviene.
Ora, puntare l’attenzione sulla parte “femminile” della conoscenza ha una sua attrattiva, io penso, nella misura in cui è – mediamente – la parte meno considerata nella nostra cultura: questo per motivi solo in parte “ideologici”, ma soprattutto, a mio parere, perché l’evoluzione del pensiero occidentale ha seguito un certo tipo di percorso per cui il nostro modo di “vedere il mondo” e di approcciarci ad esso è oggi prevalentemente analitico, calcolante, “razionale” e molto meno “sintetico” e “onnicomprensivo” anche se, mi pare, stiamo assistendo a una forte inversione di tendenza.
Entriamo quindi più nel dettaglio del Vangelo di Maria e soprattutto dell’espressione riportata all’inizio, che ne costituisce il cardine portante.
“Dov’è il noûs, là è il tesoro”.
Non arrendiamoci se questa espressione ci sembra di difficile comprensione: deve essere parso così anche alla Maddalena se, a queste parole del Maestro, chiede: “Signore, nell’istante, chi contempla la tua apparizione, è con la psyché (l’anima) che egli vede? o con il pneûma (lo spirito, soffio)?” (2)
La risposta di Gesù è secca: “Né con la psyché né con il pneûma; ma essendo il noûs tra i due è lui che vede (…)”.(3)
Non sappiamo come continua il discorso perché, da questo punto in poi, mancano alcune pagine che non ci sono pervenute, e non sappiamo nemmeno se la Maddalena abbia capito questa affermazione o se chieda ulteriori spiegazioni. Certamente, credo che, per noi, queste indicazioni di Gesù non siano semplici né immediatamente comprensibili.
Per iniziare a fare un po’ di luce su queste parole, è bene, come di consueto, partire dalla definizioni dei termini.
Cominciamo da psyché (l’anima) e pneûma (lo spirito, soffio), per poi arrivare a noûs.
Il primo elemento interessante è che, se cerchiamo sul dizionario, le definizioni di “anima” e “spirito” appaiono sorprendentemente simili e, quindi, non si capisce la differenza tra i due né la necessità di utilizzare due termini differenti per un concetto che sembra pressochè il medesimo.
Un secondo elemento di complicazione è costituito dal fatto che, nel nostro linguaggio comune, quando parliamo di “psicologico” non pensiamo all’anima, ma alla “mente”, dimenticando che, etimologicamente, anima si dice psyché, mentre quando diciamo “spirituale”, spesso colleghiamo il termine all’anima e, al limite, pensiamo che “pneumatico” sia un sinonimo.
Se non approfondiamo ulteriormente, abbiamo scarse speranze di capire le parole riportate dalla Maddalena, aggiungendo, a tutto ciò, il fatto che il noûs, solitamente, non sappiamo nemmeno vagamente a che cosa si riferisca.
Chiarire questi termini risulta quindi indispensabile non solo sotto il profilo linguistico, ma anche perché, attraverso di essi, emerge una concezione antropologica che ci può per molti versi stupire, ma anche aiutare a fare chiarezza su molte questioni.
Noi siamo solitamente abituati a pensare l’essere umano come formato di corpo e anima o, se vogliamo essere più generici, di un “elemento materiale” e un “elemento non-materiale”.
L’ “elemento materiale” sembra essere piuttosto chiaro, ed è il nostro corpo (anche su questo fronte, a dire il vero, si aprirebbero riflessioni interessanti), mentre, per quanto attiene l’ “elemento non-materiale”, sorgono una serie di questioni non banali: cos’è la nostra parte “non-materiale”? E’ l’anima? Lo spirito? La facoltà razionale? O forse solo un generico “principio vitale”, forse anch’esso, in fondo, di natura fisica? (4)
La confusione è quindi totale e vale la pena tentare di fare un po’ di ordine, ricordando, tra gli elementi che concorrono a ingarbugliare la questione, che tutti questi termini non solo sono in sé ambigui, ma che sono anche stati utilizzati con accezioni diverse da diversi autori.
Cerchiamo quindi di procedere secondo una definizione terminologica e uno schema che non è certamente l’unico possibile, ma è comunque uno particolarmente adatto a farci comprendere meglio la questione e ad aiutarci ad uscire dalla nostra consueta impostazione mentale che ci tiene imbrigliati in un forte dualismo (corpo/anima; materia/energia; bianco/nero; bello/brutto; buono/cattivo, ecc.) che ci rende ostico afferrare quello che non riusciamo a incasellare in queste nostre contrapposte categorie. (5)
Innanzitutto potremmo provare a pensare l’uomo come un essere “tutto intero” le cui diverse “parti” e/o “funzioni” non sono effettivamente divise e separate, ma solo concettualmente distinguibili.
Possiamo quindi pensare ad un essere umano composto da:
· corpo (sôma): elemento materiale;
· anima (psyché): elemento che, nel nostro linguaggio, potrebbe attenere alla parte “psichica”, “psicologica”, quindi idee, pensieri, concetti, ma anche emozioni;
· spirito (noûs): indicato con nomi diversi nelle diverse tradizioni, la “punta fine dell’anima”, quella “parte” (ma sarebbe meglio dire “dimensione”) particolare che non è né del tutto “materiale” né del tutto “non-materiale”, ma piuttosto si colloca “a metà strada” tra questi due mondi (se vogliamo, possiamo anche dire tra “umano” e “divino”). Meister Eckhart la chiamerà la “scintilla dell’anima”; io direi anche che è quello che Aristotele chiamerà “intelletto separato”, appartenente all’uomo, ma “in qualche modo” non pienamente umano e piuttosto “partecipante” di una realtà “altra”; (6)
· Spirito (pneûma): lo Spirito “altro” e “alto” (se vogliamo, lo Spirito Santo), quello che non è appartenente all’essere umano, che attiene all’ “altrove” (non necessariamente “aldilà” in senso trascendente) e che può essere o meno collegato al noûs, o meglio: lo “Spirito” è sempre collegato con lo “spirito”, ma non è affatto scontato che noi ci si renda conto di questo e che lo si percepisca. La discriminante sta quindi nella consapevolezza del collegamento, che però non può essere solo una acquisizione di tipo “razionale”, ma deve tramutarsi, diciamo così, in una “consapevolezza vissuta”. Il collegamento dello “Spirito” con l’essere umano attraverso il noûs, laddove questo collegamento venga stabilito, ma direi meglio “attivato”, permette di informare tutte le altre dimensioni dell’uomo.
Se queste quattro “dimensioni” sono tutte attive, tutte collegate, tutte armonizzate, si ha quell’essere umano che può dirsi veramente Uomo, l’ánthropos, l’uomo “integrale” e “integrato”, completo, quello che è riuscito a ricomprendere la sua parte femminile e la sua parte maschile, i suoi lati di luce e i suoi lati di ombra, la sua parte “bassa” e la sua parte “alta”. Quell’uomo che è “già ánthropos” e “non ancora ánthropos” perché questa non è una “conquista” che si fa una volta per tutte, ma è piuttosto il percorso stesso durante il quale si “esplica”, si “attualizza”, quel “seme” di completezza e totalità che già c’è, tutto, ma tutto in nuce, in ognuno di noi.
Mutuando un po’ di termini e concetti dalla psicanalisi potremmo dire che l’ “io” è allineato al “Sé”.
Oppure potremmo dire, con Meister Eckahrt, che abbiamo di fronte l’uomo “semplice” (che coincide con l’uomo “nobile”), quello che agisce “senza perché”. (7)
Nonostante questo excursus sulla dimensione antropologica e tentata una chiarificazione dei termini, la questione non sembra ancora del tutto chiara, soprattutto, a mio avviso, perché questo “famoso noûs” a noi non è per nulla familiare.
Forse possiamo fare un passo avanti se cerchiamo di capire, più che cosa sia (questo, forse, risulterà un po’ più evidente alla fine del discorso), a che cosa serva il noûs.
Maria ce lo dice chiaramente: il noûs serve per vedere, anzi, per la “visione”.
Ma se a “vedere” non è il corpo, allora non si tratta di una “visione fisica”; se a “vedere” non è l’anima, allora non si tratta nemmeno di una “visione psichica” e se a “vedere” non è lo spirito, allora men che meno è una “visione spirituale”.
E che altro tipo di “visione” può essere, allora?
Maria, attraverso le parole del Maestro, ci indica la direzione nella quale indagare: il noûs sta in “posizione intermedia” tra l’anima e lo spirito.
Quindi, pare collocarsi “a metà strada” tra il “mondo fisico” e il “mondo spirituale”.
Ma nella nostra “visione del mondo” comune e – “innanzitutto e perlopiù” accettata e praticata – non c’è niente “tra” il mondo fisico e il mondo non-fisico!
O siamo nell’”aldiquà” o siamo nell’”aldilà”, con tutto quello che poi si può dire su questo, ma, solitamente, non abbiamo né il termine linguistico né il concetto mentale per indicare “qualcosa” che stia tra “aldiquà” e “aldilà”.
Forse l’unico termine-concetto che ancora utilizziamo e che in qualche modo mantiene l’eco di una “realtà intermedia” è “Angelo”, che, anche nella accezione più comune, “si sa” avere una “natura intermedia” tra “umano” e “divino” ed essere un eventuale “messaggero” nei casi in cui il “divino” debba comunicare con l’”umano”. Ma le idee su questa questione non sono, di solito, né molto chiare né molto approfondite. (8)
Eppure, sull’affermazione e la descrizione di questa “realtà di mezzo”, le esperienze mistiche, importanti teorie psicologico-psicanalitiche e molti filosofi concordano in maniera sorprendente: la difficoltà di rilevare questa concordanza sta nel fatto che, a seconda dei diversi contesti, questa “realtà di mezzo” viene indicata con termini molto diversi tra loro ed è quindi difficile riconoscere che si sta parlando della medesima cosa.
Noi, per parlare della “realtà di mezzo”, del “mondo intermedio”, scegliamo qui di utilizzare il termine utilizzato da Henry Corbin che si è occupato in maniera approfondita di questo tema e che ha trattato tutte le implicazioni del “mondo di mezzo”, ovvero quelle filosofiche, quelle psicologico-psicanalitiche e quelle spirituali-mistiche.
Corbin chiama la “realtà di mezzo”, “l’immaginale” o “mundus immaginalis”, ovvero il “mondo delle immagini”, al quale si accede con uno specifico organo che è la “visione”, analogo ma non coincidente con l’organo (fisico) della vista. (9)
Il termine “immaginazione” potrebbe trarci in inganno perché, nella nostra cultura e nel nostro linguaggio, l’immaginazione viene spesso confusa con la fantasia, ovvero con qualcosa di totalmente irreale e inventato.
Non è così, ad esempio, negli utilizzi fatti del termine da parte di filosofi illustri quali Platone e Kant, solo per citare due dei più importanti pensatori che hanno affrontato l’argomento.
Sempre per tentare di rendere l’idea in termini più vicini alla nostra sensibilità, potremmo dire che questo mundus imaginalis è quello a cui si accede in particolari stati alterati di coscienza quali, ad esempio, il sogno, ma anche la meditazione profonda, ma anche il training autogeno, ma anche, a volte, in modo del tutto “naturale” e “spontaneo” quando abbiamo delle “premonizioni” o cogliamo delle sincronicità.
Questo è il mondo nel quale ci sono quelle che Platone ha chiamato le “Idee” e Jung chiama gli “archetipi” ed è quel mondo del quale – e “nel” quale - i mistici dichiarano di avere le “visioni”. (10)
Mi verrebbe da dire che è anche quel mondo nel quale lo sciamano diventa – per “davvero” – un’aquila piuttosto che un bisonte. (11)
Tutti quelli che ne hanno parlato ci dicono che questo mondo è “reale” e molti ci dicono che è “più reale” del mondo empirico esperibile con i sensi. Il grande equivoco che rende per noi molto difficile capire di che cosa si tratti è il fatto che siamo figli della “rivoluzione scientifica”, cioè siamo abituati a pensare che solo ciò che è esperibile, misurabile, dimostrabile, ha “realtà”, mentre tutto il resto è frutto di invenzione e di fantasticheria e non può che dirsi “irreale” (termine che, al limite, per noi coincide con “non vero”).
A questo punto ci stiamo davvero avvicinando al cuore de Il Vangelo di Maria e al tentativo di comprensione dell’affermazione dalla quale siamo partiti: “Dov’è il noûs, là è il tesoro”.
“(…), il mundus imaginalis (…) è un mondo ‘ontologicamente reale quanto quello del pensiero e della sensazione’ (in Caggìa, 2004, p.4); soltanto è esperibile attraverso funzioni diverse rispetto al pensiero e alla sensazione e con un organo specifico che è l’immaginazione.” (12)
Questa “realtà di mezzo” è quella nella quale, dal punto di vista psicologico, sussiste una particolare relazione tra conscio e inconscio e, dal punto di vista religioso, Dio si rende manifesto alla esperienza umana.
Questo è il mondo al quale si accede con il noûs di cui ci parla la Maddalena e che, infatti, viene identificato come occupante posizione intermedia tra psyche e pneûma.
A questo punto ci potremmo chiedere: “Ma, a noi, cosa interessa accedere a questo ‘immaginale’?”.
Niente, se continuiamo a intenderlo come qualcosa di “mistico”, lontano ed esoterico e se non siamo interessati a intraprendere non meglio specificati “cammini di perfezione spirituale”.
Molto, invece, se usciamo dalla nostra consueta, dualistica visione del mondo e se intravediamo la possibilità – assai concreta – non solo di “visitare” questo medio mundo, ma anche di farne esperienza in un modo che, poi, può davvero “servirci a qualcosa” nella nostra vita quotidiana.
Innanzitutto, “il mundus imaginalis è luogo di creazione; (…). Psicologicamente parlando, il mondo immaginale è la dimensione specifica dell’esperienza creativa. E’ un mondo pervaso da una facultas performandi e in esso risiedono le strutture del pensiero creativo”. (13)
Ora, anche a questo proposito, potremmo obiettare che, se non ci interessa fare i “creativi” nel senso artistico del termine, non c’è interesse per noi a frequentare il medio mundo.
Ma la “funzione creativa” alla quale qui ci si riferisce non attiene, evidentemente, alla sola produzione di opere artistiche in senso stretto, quanto piuttosto alla “creazione continua” che è la nostra esistenza.
Non serve fare nessun “salto mistico” per rendersi conto che, continuamente e incessantemente, siamo direttamente coinvolti nella “progettazione” e nella “costruzione” della nostra vita: in ogni istante percepiamo noi stessi e il mondo secondo una serie di “schemi interpretativi”, in ogni istante ci troviamo necessariamente a dover operare delle scelte, mai possiamo uscire dalla nostra dimensione psicosomatica, cioè non ci è dato di fare nessuna esperienza che non coinvolga in toto sia la nostra “parte materiale” che la nostra “parte non-materiale”.
Possiamo certamente decidere – più o meno consapevolmente – di vivere la nostra vita e operare le nostre scelte affidandoci esclusivamente a tutti quegli “schemi meccanicistici” che ci governano e di “rispondere” a quello che “ci accade” secondo il principio di azione-reazione che opera automaticamente e incessantemente in noi e “indipendentemente” da noi.
Si può fare, anzi, di solito, si fa. Non è indispensabile voler capire “come e perché” operino questi meccanismi né voler per forza acquisire un certo margine di “libertà di azione” sui meccanismi stessi.
Se ci interessa farlo, però, allora il mundus imaginalis e la nostra possibilità di accedervi consapevolmente attraverso il noûs diventa uno scenario molto interessante da scoprire.
Abbiamo poco sopra accennato al fatto che l’immaginale è sede delle “strutture di pensiero”, degli “archetipi”, ma anche delle “Idee”: questo significa affermare che è il “luogo” dove abitano e dove hanno realtà ontologica i “modelli” – mi verrebbe da dire “completi”, e mi verrebbe anche da dire “tutti i modelli possibili e…immaginabili”! – delle “cose”, delle “situazioni”, di “noi”.
E mi viene alla mente il Demiurgo che “plasma” il mondo “guardando alle Idee” e lo fa attraverso la “mediazione” dei Numeri, delle “realtà matematiche” e la sua è una attività “ordinatrice”, è un “portare il limite nell’illimitato”.
E mi pare che il nostro compito sia proprio quello di “fare i Demiurghi”.
Cerchiamo di dettagliare questa idea: se nel medio mundo c’è “tutto” e se c’è come “forma” - diciamo pure “ideale” ricordando che “ideale” non significa “irreale”, ma, semmai, “ancora più reale” – e se il mondo empirico non è che una attualizzazione possibile di questa forma, una delle infinite attualizzazioni possibili, allora si può almeno ipotizzare di “pescare” un’altra “forma” e “renderla effettiva” nel mondo che siamo soliti chiamare “fisico”.
Le “forme” io me le immagino “infinite” non solo perché, come magari ci direbbe la fisica quantistica, c’è tutto un coacervo e un brulicare di particelle (?), onde (?), materia (?), energia (?), che può aggregarsi in un modo oppure in un altro e solo “dopo” che si “attualizza” una certa aggregazione piuttosto che un’altra “quella” è l’aggregazione che si “manifesta” nel nostro mondo empirico (e che in qualche modo “esclude” tutte le altre, che rimangono allo stato “potenziale”), ma me le immagino “infinite” anche perché l’”aggregazione singola e puntuale” dipende necessariamente da quello che viene solitamente definito l’”osservatore”.
Cioè, mi par di capire che “indipendentemente e assolutamente” non può esserci proprio niente, se non la “potenzialità di tutto”, che pure ha realtà ontologica più “pesante” del mondo empirico e che, tuttavia, nel mondo empirico si manifesta solo nel momento in cui una coscienza ne “intercetta” un aspetto. Ma perché “qualcosa” di questo “potenziale tutto” si “attualizzi” in maniera singolare e determinata, è necessario che ci sia un “mediatore”: il Demiurgo, l’”osservatore”, “noi” siamo il “mezzo” che rende possibile il passaggio dalla potenza all’atto, se vogliamo dirla con Aristotele.
Ma il “mezzo” non è accidentale, è piuttosto conditio sine qua non del “passaggio”.
Si aggiunga però che, mentre le Idee, gli Archetipi che abitano il mondo immaginale sono “potenzialità infinite”, l’”osservatore” – sia esso il Demiurgo di Platone, l’Angelo o il singolo essere umano – è sempre “un osservatore”, anzi, è sempre “quell’osservatore” particolare, unico, irripetibile e irriducibile sia rispetto a tutti gli altri che rispetto a se stesso, nel senso che se guardo oggi “vedo X” e se guardo domani “vedo Y” perché oggi “sono e non-sono” quello che sarò domani.
E poiché in questo mondo immaginale – come peraltro indica il termine stesso – la realtà si manifesta sotto forma, appunto, di immagini, ecco che, per accedervi, occorrerà sviluppare proprio la nostra “capacità immaginativa”.
Ed ecco perché, allora, possiamo dire con Il Vangelo di Maria che “Dov’è il noûs, là è il tesoro”.
Perché, che lo si chiami noûs o in qualsiasi altro modo, l’importante è rilevare che noi possediamo la capacità di accedere a questo medio mundo.
E accedervi non è uno strano esercizio da “aspiranti mistici”, ma uno strumento “pratico” e “utilizzabile” – mi verrebbe da dire “concretamente” – per operare nella nostra vita quotidiana.
Molti sono stati, e sono, i metodi proposti per l’accesso: la maggior parte apparentemente incomprensibili a noi che abbiamo “dimenticato”, in primis, l’esistenza di questo “mondo di mezzo”.
Se però proviamo a valutare l’ipotesi che questo mondo ci sia e che sia reale – ontologicamente più reale del mondo empirico nel quale ci pare di essere “confinati” – e se ipotizziamo di avere una facoltà che ci permetta di accedere a questo mondo, allora intuiamo facilmente dove stia il “tesoro”.
Il “tesoro” sta nel fatto che “ascendere al mundus immaginalis è evolutivamente importante, per rapportarsi in maniera realistica alla propria totalità unitaria, per prendere visione degli archetipi che improntano la propria soggettività e la propria esistenza, per raccordarsi con le linee bionomiche dello sviluppo individuativo, per scrutare le tendenze del ‘piano di vita’ e per sintonizzare i propri sforzi consapevoli con l’orientamento della psiche inconscia”. (14)
Mi avvio alla conclusione sollevando un dubbio, una “sensazione”, una ipotesi di ricerca: molte e diverse sono state e sono le “tecniche” proposte per accedere al “mondo di mezzo”.
A me sembrano tutte affascinanti, ma tutte un po’, come dire, “fumose”.
Pertanto mi chiedo: sembrano “fumose” solo a me perché probabilmente credo, a tratti, di aver capito di cosa si parla e in realtà non l’ho veramente compreso?
Mi sembrano “fumose” perché non riesco a far funzionare la parte “femminile”, la “visione” e quindi cerco di voler dettagliare e definire qualcosa che, di per sé, non è dettagliabile e definibile o, comunque, non completamente?
Mi sembrano “fumose” perché mi ostino a voler “capire col cervello sinistro” e non “comprendo col cervello destro”?
Questo può essere. E probabilmente è.
Però…però…a me arriva spesso una “suggestione”, alla quale ho già avuto modo di accennare: che ci sia da indagare in direzione del mondo “matematico”, che anche lì ci sia un “tesoro” da scoprire per “acquisire” degli “strumenti” di accesso a questo medio mundo che, mi pare, possa davvero rappresentare uno scenario ricco di opportunità per “giocare la partita” nel “mondo di qua.
NOTE
1. L’interessante approccio “terapeutico” è approfondito in JEAN YVES LELOUP, Il Vangelo di Maria – Myriam di Magdala, traduzione di M. Patrizia Persico, Gruppo Editoriale Viator s.r.l., Milano 2007-2011;
2. Ivi, pag. 32;
3. Ivi, pag. 32;
4. Interessanti riflessioni, sia dal punto di vista della genesi storica che dal punto di vista filosofico, sulla nostra percezione dualistica di “anima” e “corpo”, le ritroviamo in UMBERTO GALIMBERTI, Il corpo, I Ed. 1983, Feltrinelli Editore, Milano 2013;
5. Una interessante panoramica di ipotesi antropologiche, in JEAN YVES LELOUP, Op. Cit.; Milano 1981:
6. Parte della definizione di noûs tratta da AA.VV., Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti Editore S.p.A., pagg. 650-651: “In origine riguarda atti di riconoscimento immediato, direttamente associati alla vista (…); ma è uno sguardo diverso dalla percezione visiva, che non si affida a organi di senso, ed è per lo più considerato come infallibile e divino più che umano. Aristotele ne condensa la natura nell’opposizione tra pensiero noetico o comprensione diretta dei principi del sapere, e pensiero dianoetico, che è il processo discorsivo del ragionamento a partire dai principi di una scienza. In quanto è sentito come divino e impersonale, il noûs diviene con Anassagora la mente ordinatrice della mescolanza originaria, cui imprime il movimento vorticoso per il quale si distaccano gli elementi e si genera l’ordine del divenire. La tesi è ripresa in seguito da Platone, che nel Filebo e nel Timeo fa del noûs il ‘demiurgo’ o ‘produttore’ del cosmo generato, (…)”;
7. In questo contesto si parla di ánthropos, ma, con termini differenti, è frequentissima l’idea di questa “originaria unitarietà” dell’essere umano che va in qualche modo “ricostituita”: solo per citare due tra i maggiori esempi penso a Platone e al “Mito dell’androgino” e a C.G. Jung e al “processo di individuazione” che dovrebbe tendere ad un “riallineamento con il Sé”;
8. Sul tema dell’Angelo, cfr. il sempre meraviglioso MASSIMO CACCIARI, L’Angelo necessario, Adelphi Edizioni S.p.A., Milano 1986;
9. HENRY CORBIN, Mundus Imaginalis, o l’Immaginario o L’Immaginale, 1964;
10. Per completezza di informazione, è bene ricordare che le “Idee” di Platone e gli “Archetipi” di Jung non sono proprio perfettamente sovrapponibili, ma, nel contesto di questa trattazione, possiamo agevolmente utilizzare i due termini come sinonimi, non dimenticando, tuttavia, che l’argomento meriterebbe una più ampia disamina che, però, ci porterebbe troppo lontano dalla presente esposizione;
11. “Per ‘davvero’”, cioè a livello “simbolico” che, mentre per noi, mediamente, non allude a nulla di “reale”, a livello etimologico e anche a livello “profondo”, significa invece qualcosa di “molto più reale” di quanto avvenga nel mondo empirico perché avviene nel mondo dei cosiddetti “piani sottili” che hanno “più essere” e non “meno essere” di quello che è il mondo “fisico” esperibile attraverso i nostri cinque sensi;
12. CLAUDIO WIDMANN, Al di là del sensoriale d’estende l’immaginale, pag. 2;
13. Ivi, pag. 13;
14. Ivi, pag. 14.