Sillabe inconcludenti sull’esistenza. Il dolore e la soglia
«Qualcosa di terribile, di nuovo, e di significativo come null’altro nella sua vita, stava avvenendo dentro di lui. E lui solo ne era a conoscenza, tutti quelli che lo circondavano non capivano o non volevano capirlo, e pensavano che tutto, al mondo, andasse come prima».[1]
Nello scarto tra ordinario e straordinario il dolore disegna da sempre la sua cartografia biologica ed esistenziale; voce flebile eppure mai silente, enigma che, pur paralizzando, dischiude squarci d’essere di cui, però, ci è sovente precluso, nel tentativo di rintracciarne un senso sia pure umbratile, non solo l’abisso, ma anche lo strato che segue alla sua apertura.
Il dolore, che si fa sofferenza quando tenta di reperire un’articolazione di senso, è cifra tragica dell’esistere[2], segno di quella ossatura ontologica originaria che fa della nostra carne un evento sempre aperto al disfacimento bio-ontico o ultimativo, lacerazione dell’Unità originaria, di cui sono pregne le grandi narrazioni antropologico- culturali[3].
Insomma, il dolore è inclusività ontologica di primo livello, nella misura in cui, come ricorda Le Breton, “è un’incisione del sacro, nel senso che strappa l’uomo a se stesso e lo mette di fronte ai suoi limiti”[4].
Il dolore si appunta nella carne fin dall’origine, quando dallo spalancamento (chaos) emergiamo come biografie precarie e la sofferenza si fa chiaroscurale sporgenza assiologica, parola abitata dall’enigma, evento mai compiutamente tessuto[5].
Il dolore come costitutivo dell’umano non è più l’intruso di Jean-Luc Nancy, ma stato originario, fondo comune ad ogni progettualità esistenziale che, immersa nel tempo cronologico, non può mai avere il segno salvifico dell’Origine, poiché inizio sempre terminante, generazione già nata esanime, su cui forse solo la parola paziente può esercitare uno sguardo colmo di solidale ineluttabilità: «La pazienza nella nostra tradizione culturale non è un sentimento, bensì una virtù. E’ la virtù dell’attesa temporale, della disposizione all’ascolto nei confronti degli altri e della tenace sopportazione del dolore. Tuttavia, considerare la pazienza come un sentimento aiuta a metterne in evidenza il radicamento nella nostra condizione corporea più che nella sfera intellettuale e, da ultimo, in quella razionalità per cui si tratta solo di calcolare e astrarre e il calcolo, come dimostra la stupida intelligenza del computer si può fare sempre più in fretta. La pazienza si inscrive, quindi, nel tempo del corpo, che è fatto di lentezza e gradualità, di durata, di
maturazione e di invecchiamento, di affaticamento, di stanchezza e imprecisione»[6].
L’esistenza come imprecisione dice di un in negativo di praecisus, “ciò che è stato tagliato davanti”, ovvero la condizione umana come espressione di ciò che è sempre “tagliato davanti”, reso incompiuto, su cui lo sguardo progettante deve esercitare un’operazione di “taglio” del superfluo, dell’ornamento, che cela l’essenziale del tragico: l’incompiutezza che si fa dono, prossimità, vicinanza assoluta, sillaba corporea, sia pure inconcludente, che invita la ragione calcolante a trapassare forzatamente nella compassione biologica. Non la pietà, mera vibrazione sentimentalistica, più dell’empatia, soglia cognitiva del sentire, compassione, appunto, azione del ”faccia a faccia”, attenzione abissale alla singolarità sofferente e silenziosa[7].
Se è vero, come dice Trakl, che “il dolore ha pietrificato la soglia”[8], allora la soglia diviene luogo autentico dell’abitare con dolore la terra, geografia di confine tra esterno e interno che divide e solidifica, disgiunge e pietrifica, spezza e raduna: «Il dolore è ciò che congiunge nello spezzamento che divide e aduna. Il dolore è la connessura dello strappo»[9].
La condizione umana abita la soglia come copertura sempre esposta, imprecisa, luogo mai netto, stabilità appena tracciata, linea di confine, evenienza tragica, imminenza del non più sempre presente, di cui la malattia, la sofferenza, la disabilità sono tonalità solo più accentuate di uno stesso sfondo.
Dal riconoscimento del tragico ontologico di primo livello, l’attenzione ad ogni tipo di menomazione, come processione ontologica o ontologia di secondo livello, trapassa dall’ideologia inclusivista ( salute e malattia, disabilità e persona, dove la e include a partire dall’esclusione)[10], quindi pietistica, alla riconduzione compassionevole ad un’unica soglia.
Solo da qui, è possibile un autentico radicamento della gratuità, di un’antropologia del dono in cui ognuno si fa soglia per l’altro: “Non esiste un prossimo; io mi faccio il prossimo di qualcuno”[11].
Il dono non solo come ricostruzione del legame sociale, apertura pur sempre aperta alla comunicazione[12], ma piuttosto come accompagnamento[13], e, ancor più, intimo legame[14].
La parola intimo rinvia al superlativo latino di interus, appunto intimus, con il significato di ciò “che è il più addentro”, quindi molto famigliare. Il dolore, come dato naturale dell’esistere, ci rende intimi, ci “raccoglie”, ci “lega” all’interno di una soglia molto famigliare, in cui ogni essere dona all’altro il proprio tragico, poiché tragico è tutto ciò che gli umani conoscono, sperimentano, condividono.
Solo se lo Strappo ultimativo (la Morte, e le molte morti quotidiane, come condizione umana) resta sullo sfondo come orizzonte comune, è possibile dare respiro alla vita come soglia donativa, vicinanza naturale alle policrome tonalità con cui il tragico innerva il nostro stare al mondo[15].
Note:
[1] L. Tolstoj , La morte di Ivan Il’íc e altri racconti, tr. it. Mondadori, Milano 1999.
[2] Su questo tema, si rinvia al saggio di U. Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[3] Cfr. F. Gabrielli, M. Ianno’, Del limite. Pagine di filosofia e medicina, Ludes University Press, Lugano 2010. Come afferma Bataille: «Alla base della nostra esistenza sta una serie di passaggi dal continuo al discontinuo e dal discontinuo al continuo. Noi siamo esseri frammentari, individui che muoiono isolatamente nel corso di un’avventura inintellegibile, colmi di nostalgia per la perduta unità. Sopportiamo a stento la condizione che ci inchioda a una individualità casuale, a quella individualità peritura che noi siamo. E se abbiamo il desiderio angoscioso della durata di quest’essere destinato a perire, abbiamo ugualmente l’ossessione di una totalità originaria, che ci unisca all’essere complessivo» (G. Bataille, L’erotismo, tr. it. ES, Milano 1991).
[4] D. Le Breton, Antropologia del dolore, tr. it. Meltemi, Roma 2007.
[5] Aínigma, connesso al verbo ainíssomai, “faccio allusione”, “accenno”, “dico di nascosto”: cfr. R. Corrado, A. Tagliapietra, Il senso del dolore. Testimonianza e argomenti, Editrice San Raffaele, Milano 2011.
[6] R. Corrado, A. Tagliapietra, Il senso del dolore. Testimonianza e argomenti, cit.
[7] Su questi temi, si può fare riferimento a H. Arendt, Sulla rivoluzione, tr. it. Comunità, Torino 1999; A. Pinotti, Empatia. Storia di un'idea da Platone al postumano, Laterza, Roma-Bari 2011.
[8] G. Trakl, Poesie, tr. it. Rizzoli, Milano 1974.
[9] M. Heidegger, Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl, in In cammino verso il linguaggio, tr. it. Mursia 2014.
[10] Per una decostruzione del “sincategorema” e, cfr. J. Derrida, Et cetera (and so on, und so weiter, and so forth, et ainsi de suite, un so überall, etc), tr. it. Castelvecci, Roma 2014.
[11] P. Ricoeur, Histoire et verité, Seuil, Paris 1955.
[12] Cfr., per esempio A. Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1998; Ph. Chanial, F. Fistetti, Homo donator. Come nasce il legame sociale, il melangolo, Genova 2011.
[13] «Accompagnare (da con pane, cioè compagno) significa condividere il pane e rinvia in qualche modo all'accordo ideale in cui l'alimento raro è suddiviso in modo equo tra tutti i compagni. E' l'immagine archetipica della solidarietà e dell'ospitalità, le quali presuppongono la comunione dei destini» (Ch. Gardou, Diversità,vulnerabilità e handicap. Per una nuova cultura della disabilità, tr. it. Erickson, Trento 2007).
[14] Heidegger, com’è noto, rinvia il termine álgos alla radice lig/leg, con il significato di “intimo raccogliere” (das ins Innigste Versammelnde): M. Heidegger, La questione dell’essere, in Segnavia, tr. it. Adelphi, Milano 1987.
[15] Minkoswki propone una penetrante distinzione tra “morte immanente”, come dato naturale, fedele compagna del vivere, e “morte transitiva”, come angosciante negatività assoluta: «Nella vita, la morte interviene su più aspetti diversi. Da una parte intimamente legata alla vita, la segue come un’ombra; ogni opera compiuta segna la fine di una parte della nostra vita; così pure, con ogni sentimento che raggiunge l’apogeo per poi declinare, noi seppelliamo una parte di noi stessi. Via via che la nostra vita avanza, questa “morte” non fa che aumentare, anch’essa, per porre fine, quando la nostra vita sembra aver realizzato ciò che doveva poter realizzare, in modo naturale, al nostro divenire individuale. Questa morte è una parte integrante della vita; noi non camminiamo verso di lei, ma è lei, al contrario, che ci segue passo passo, compagna fedele, incapace di ispirare il minimo timore. E’, in rapporto alla vita, la morte immanente. Ma a fianco di questa c’è la morte transitiva. Questa, come forza estranea e ostile, viene a distruggere brutalmente dal di fuori la nostra vita; non è legata all’effusione della vita, ne è invece la negazione, e ispira terrore. E’ probabile che la morte transitiva sia un prodotto del nostro pensiero, che tenta di rappresentarsi, di obiettivare la progressione della morte immanente, cosi come lo fa anche con il tempo vissuto, ma vi riesce solo deformandola, e questa immagine caricaturale, staccata dal suo fondo naturale e che si oppone all’io vivente, ci riempie di spavento.Quando il flusso della vita è sbarrato anche la morte immanente viene bloccata; in tal caso è la morte transitiva ad imporsi con prepotenza allo spirito» (E.Minkowski, Il tempo vissuto, tr. it. Einaudi, Torino 1971).