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Lisa De Luca

LA FERITA D’AMORE. Riflessioni antropologico-esistenziali


Per intendere questo discorso bisogna essersi innamorati almeno una volta o, almeno, bisogna sentire che è possibile che questo accada, “ci-accada”.

Innamorati di una persona, ma anche di una idea, di un progetto, di un’arte, di una attività.

Non mi riferisco all’amore “razionale”, all’amore “sensato”, non parlo del compagno/compagna che – compatibile per carattere e stile di vita – ci sta accanto, “razionalmente” e “sensatamente”.

Non mi riferisco al lavoro che abbiamo scelto di fare perché non ci dispiace, ma magari nemmeno ci piace, che è tranquillo, ordinato, sicuro.

Parlo dell’amore che irrompe, che “spezza”, che non ha “senso”, che arriva non si sa quando né da dove, che non si sa se andrà da qualche parte né, nel caso, dove.

Parlo dell’amore che non si sceglie, dell’amore che arriva, regalo imprevedibile e non richiesto, né richiedibile.

Regalo che, tuttavia, è tale solo se viene accolto.

Si può anche non accogliere, anzi, di solito così si fa: non succede “niente”…se non che rimane un senso di “peso” – pesantissimo – un costante e sordo dolore, un pianto senza lacrime dell’anima.

Ma il titolo recita “La ferita d’amore” e, allora, dovremo prioritariamente intenderci sul significato di “ferita”, ammesso poi di capirci sul significato di “amore”.

Chiediamoci quindi: che cos’è una ferita?

La ferita è una lacerazione, di solito della pelle, ovvero del nostro involucro e del nostro “confine”, anche.

La pelle ci mette in comunicazione con il mondo, ma anche dal mondo ci separa e ci protegge.

La pelle stabilisce, nettamente, dove “finiamo” noi e dove “comincia” il mondo.

E’ – fisicamente – il nostro “limite”.

Impedisce – se così vogliamo dire – la nostra “fusione” con il mondo e la nostra stessa “dispersione”.

Se subiamo una ferita, questo limite viene valicato.

La ferita, normalmente, non si cerca, ma “accade”.

La ferita implica qualcosa di esterno che, appunto, ci ferisce: questo “qualcosa” ha il carattere dell’improvviso e dell’imprevedibile e provoca dolore.

Analizziamo queste caratteristiche.

Qualcosa di esterno deve intervenire affinché si provochi una ferita: qualcosa ci deve “tagliare”, “lacerare”, deve scalfire il nostro “limite”, deve “invadere” il nostro “confine”.

Sembra quasi un linguaggio militare, un linguaggio di guerra: lo è. Il nostro rapporto con la “ferita d’amore” assomiglia assai a una battaglia, cruenta. E’ una battaglia, cruenta.

Ha il carattere dell’improvviso e dell’imprevedibile ché, se sapessimo che stiamo per ferirci, cercheremo di difenderci per evitarlo.

Provoca dolore: sì, sul momento sempre, più o meno, perché, appunto, “taglia”, “rompe”, “lacera”.

Queste sono, grossomodo, le caratteristiche peculiari delle ferite fisiche, ma non sono, forse, anche i segni distintivi dell’amore?

Non è forse vero che, anche l’amore, arriva, senza preavviso, senza chiamata, dall’esterno e, in qualche modo, ci “colpisce”?

E non è forse vero che, pur in gradi diversi, questo “colpo” viene avvertito – anche quando viene vissuto come bello e felice – come portatore di una certa dose di “dolore”?

Su questo aspetto vale la pena riflettere profondamente.

Innanzitutto, cosa, della ferita o dell’amore o della “ferita d’amore” ci provoca quello che chiamiamo “dolore”?

Io credo che sia il “taglio”.

C’è una irruzione esterna che ci rompe, ci spacca, che apre un varco.

Abbiamo paura di perdere i nostri confini, spesso ci attiviamo prontamente con contromisure di “chiusura” difensiva.

Infatti, anche per una ferita fisica, prima disinfettiamo e poi chiudiamo: basta un cerotto se la ferita è superficiale, servono i punti di sutura se è profonda.

Ma, prima di tutto, sappiamo che è necessario disinfettare, cioè pulire ed eliminare la “contaminazione” esterna, altrimenti si rischia una infezione. Si sa.

L’operazione di disinfezione è quanto mai interessante: non è forse vero che la facciamo anche, istintivamente, quando ci innamoriamo?

Non la chiamiamo “disinfettare”, ma questo non cambia nulla.

Non è forse vero che sentiamo subito il bisogno di fermarci un attimo, di “capire” cosa è successo, di valutare, di soppesare e di “nominare”? E’ amore? Colpo di fulmine? Semplice simpatia? Attrazione fisica o sentimento?

E questa non è proprio una operazione di pulizia?

Nominare, definire, non è pulire, discernere “ciò che è” da “ciò che non è”?

In una fase appena successiva, poi, tendiamo ad aspettare che la ferita si rimargini, che guarisca.

A volte, a guarigione avvenuta, la ferita lascia una cicatrice – quanto grande ed evidente dipende da quanto è stata profonda la ferita - indelebile segno di quanto è avvenuto, monito a ricordare, ma monito muto, perché lì dove la pelle si è cicatrizzata non è infrequente essere del tutto o in parte insensibili.

Proprio lì dove c’è stata la lacerazione che ha provocato dolore, dopo la guarigione può accadere di non sentire più niente.

E’ curioso che ci si sia impegnati a mettere in atto una serie di azioni affinché questo processo avvenisse nel modo più veloce possibile.

A me, però, viene voglia di domandarmi se sia sempre questo il modo “corretto” di gestire le ferite.

Ho detto in apertura che è utile pensare all’innamoramento, per una persona, ma anche per un’idea, una disciplina, un’attività.

Abbiamo analizzato i tratti salienti dei una ferita, ora vediamo di dire qualcosa sull’amore.

E, a proposito dell’amore, in ambito filosofico non serve andare in cerca chissà dove: Platone ha spiegato tutto e tutto molto chiaramente.

Eros è filosofo.

Quindi, l’amore è un processo di conoscenza.

Viceversa, che la conoscenza sia un processo d’amore è già detto nell’etimologia di “filosofia”, ovvero “amor di sapere”.

E non è forse corretto dire che tutti gli amori sono processi di conoscenza?

Che cosa accade, quando mi innamoro di qualcuno o di qualcosa, se non che conosco – e mi conosco – di più e meglio?

Non è forse l’"altro" di cui mi innamoro uno specchio nel quale mi rifletto e, quindi, mi guardo, vedendo, come fosse la prima volta, qualche parte di me che finora era rimasta nell’ombra?

Non dico niente di nuovo: si sa che, a rigore, non ci innamoriamo mai di un “altro”, ma di qualcosa di noi che nell’altro vediamo, riconosciamo, spesso senza esserne consapevoli.

Quando l’innamoramento è vissuto come “bello” e “positivo”, si sta riflettendo qualcosa di noi che ci piace.

Quando, invece, l’immagine che ci viene rimandata dallo specchio attiene a caratteristiche – nostre – che noi sentiamo come “brutte” e “negative”, si provocheranno sensazioni più o meno “spiacevoli”, ma non per questo meno forti di quelle “belle”.

Prova ne è che non tutti gli innamoramenti hanno i caratteri della serenità, della bellezza, della felicità.

Che l’immagine riflessa sia “bella” o “brutta” spesso esercita una attrazione irresistibile.

Eppure, che sia “bello” o “brutto”, che ci faccia stare “bene” o “male”, sempre di innamoramento si tratta. E sempre, anche, di processo di conoscenza.

Che si viva una storia “felice” o una storia “triste”, comunque, sempre, volenti o nolenti, siamo “costretti” a conoscerci meglio.

Mi piace, a questo proposito, una frase di Elif Shafak ne Le quaranta porte: “Ogni sentimento autentico di amore e amicizia è storia di cambiamenti inattesi. Se restiamo gli stessi prima e dopo aver amato, significa che non abbiamo amato abbastanza”.

Vero. Se la “ferita d’amore” non lascia una “cicatrice”, se la pelle ritorna tale e quale era prima del ferimento, la “lesione”, il “taglio” non sono stati profondi, ma solo superficiali.

E qui, però, ci avviciniamo a quello che è il punto focale di tutto il discorso, ovvero il dolore associato alla ferita.

Riprendiamo dalla domanda posta poco sopra, cioè se sia “corretto” gestire le ferite come abbiamo dettagliato, ovverosia mirando, sostanzialmente, a farle rimarginare quanto più in fretta possibile, riducendo al minimo il dolore ed evitando accuratamente l’infezione, possibilmente senza che rimanga neppure la cicatrice.

E mi chiedo: perché abbiamo tutta questa “fretta”?

La risposta è così semplice da sembrare banale: abbiamo fretta perché non ci piace soffrire.

Abbiamo fretta perché le ferite sono dolorose, potenzialmente pericolose e, quindi, prima si rimarginano, meglio è.

Ma siamo sicuri che questa sia proprio l’unica e migliore opzione?

Intendo: che si ami una persona, un’idea, una disciplina, che si viva una forte passione, fisica e/o intellettuale (ammesso e non concesso che ci sia una differenza tra le due), c’è sempre un aspetto che viene avvertito come “doloroso”.

Quale è, a ben guardare, questo aspetto?

E’ la “mancanza”.

Quando amiamo qualcuno/qualcosa vorremmo averli sempre con noi e, quando non ce l’abbiamo, ci mancano, quindi soffriamo.

Il ragionamento sembra logicamente corretto, così chiaro da sembrare perfino superfluo dire una cosa del genere.

Ma non è forse vero che, nel caso si possa sempre avere la persona/cosa che amiamo, sparisce sì quello che abbiamo chiamato “mancanza” e “dolore”, ma anche si affievolisce lo “slancio” e la “tensione” verso la persona/cosa?

E non è proprio la mancanza che continuamente alimenta e tiene alta la tensione impedendo che tutto il processo si arresti collassando?

Non è proprio la mancanza che conferisce il movimento evitando la stasi?

Ma chi mai farebbe il filosofo se pensasse di poter ottenere, un giorno, tutta la conoscenza, completa e perfetta?

Chi mai può dire di amare ancora profondamente quando non sente più la “tensione verso” e non prova più alcuna “curiosità” e meraviglia di fronte alla persona/cosa?

Ma, allora, perché dobbiamo – sembra necessariamente – associare il “dolore” alla “ferita d’amore”?

Mi viene il dubbio che ci sia un grande equivoco di fondo, tanto linguistico quanto concettuale che poi, lo sappiamo bene, coincidono, dal momento che del mondo possiamo percepire solo quello che il nostro linguaggio ci permette di cogliere e che il nostro linguaggio altro non è che il nostro pensiero, ovvero il nostro insieme di sensi e significati.

Perché quella “mancanza”, quella “tensione” deve per forza essere chiamata “dolorosa”?

Con un’equazione così perfetta – sembra – da indurci, addirittura, a “misurare” il nostro grado d’amore proprio in relazione al “quanto” ci manca ciò che diciamo di amare, ovvero quello che identifichiamo come l’”oggetto” del nostro (chiamato) amore.

E se la faccenda, invece, stesse in tutt’altri termini?

Voglio dire: se la “ferita” fosse proprio ciò che permette il nostro contatto con l’”altro”, se questa “lacerazione” del tessuto fosse l’unico “modo” per fare l’esperienza d’amore?

Se fosse non solo una sua caratteristica accidentale, ma la conditio sine qua non dell’amore?

Con questo non sto associando irrimediabilmente “amore” e “dolore” in una visione tragico-romantica, ma esattamente il contrario.

Come detto, a me sorge il forte dubbio che ci sia, qui, un “problema” linguistico e, perciò, senza soluzione di continuità, un “problema” nel pensiero. Una sorta di “imperativo” a soffrire.

Ma chi lo dice che permettere l’"entrata" dell’"altro" sia “doloroso”?

O meglio, chi lo dice che dobbiamo chiamare – e quindi sentire, provare – “dolore” quella particolarissima sensazione, emozione, pensiero che coinvolge tutto il nostro essere quando “siamo presi” dall’amore, sia esso amore per qualcosa o per qualcuno?

Quello stato è assai particolare, unico direi: come una “forza” sconosciuta, che arriva non si sa da dove, che dove va non si sa, e che ci porta, ci conduce.

Perdiamo i “limiti”, i “confini”, l’”estraneo” ci ha invaso, e continuamente ci invade.

E se quello che sentiamo in questi casi non fosse “dolore”, ma “paura”?

Diciamo tutti che vogliamo amare e, ancora di più, forse, essere amati. Non credo affatto che sia vero.

Forse, al massimo, vogliamo tutti (o diciamo di volere) quel tipo di amore rassicurante e confortante, sicuro, caldo, vicino. Bello. Bellissimo.

E’ amore?

Sì, ma solo se non ha perso, ma solo trasformato, la potenza di Eros.

E non intendo la passione sessuale fine a se stessa, non intendo l’attrazione fisica, chimica, meccanica. Non che queste non siano componenti importanti, anzi, direi essenziali, se sapessimo intenderle nel loro senso profondo.

Invece, anche qui, facciamo una gran confusione, scambiamo una cosa per l’altra, appiccichiamo i nostri nomi alle cose in modo quanto mai maldestro.

E anche questo ce l’ha spiegato bene Platone: non sappiamo proprio nulla dell’amore, confondiamo l’"amante" con l’"amato", la meta con il percorso.

Ci ha detto anche che l’amore è “nostalgia dell’assoluto”, ma questa cosa dobbiamo essercela persa per strada, da qualche parte.

Io dico che amore è per tutti e per tutti scaglia le sue frecce. Dico anche che le scaglia in continuazione.

E le traveste da persone, da libri, da quadri, da arti e mestieri, e da molto altro ancora.

Amore scaglia le sue frecce per tutti, ma se ci siamo messi l’armatura, la freccia rimbalza, e non ci ferisce.

Condizione auspicabile?

Dipende dai punti di vista.

Per molti sì: è facile, è comodo stare nel “limite”, soprattutto se non so che è tale.

E’ rassicurante sapere chi sono, da dove vengo e dove vado. O credere di saperlo.

Metto la corazza, di solito e possibilmente senza rendermene conto, e nessuna freccia mi colpirà, nessuna “ferita” attenterà alla mia vita.

Oppure vado in giro disarmato, con tutti i rischi che questo comporta.

Verrò ferito?

Non si sa e non si può sapere. Non si deve nemmeno sapere.

Ma se accadrà – e probabilmente accadrà – avrò ancora una possibilità di scelta, e ce l’avrò sempre.

Potrò decidere, dopo il primo momento di sorpresa e smarrimento, di curare la ferita: prima agisco e più sono le probabilità che la guarigione sia completa e definitiva.

Tuttalpiù, rimarrà una cicatrice, ma, si sa, la pelle delle cicatrici è insensibile…

Oppure potrò decidere di curare la ferita, ma nel senso di “prendermene cura”.

La pulirò e la disinfetterò quel tanto che basta affinché non si scateni un’infezione mortale.

Ma non avrò nessuna fretta di “guarire”, anzi, quando mi accorgerò che il “taglio” si sta rimarginando, avrò proprio cura di “tenerlo aperto”. Operazione semplicissima: basta “bagnare” la ferita, usare acqua.

Perché, se è vero che la cicatrice è insensibile, una ferita aperta è invece ipersensibile: è un punto in cui “si sente di più”, perché “entra dentro” dove, con espressione colloquiale quanto mai opportuna, la carne è “viva”.

E se vogliamo proprio dire che dove la carne è viva e si sente di più si prova “dolore”, diciamolo pure. Ma proviamo, almeno, a non associare, per forza, al dolore, qualcosa di “negativo” e da cui fuggire, da cui difendersi.

Non è il dolore che ci spaventa. Il dolore passa. Tutti i dolori se ne vanno, prima o poi. Di solito prima che poi. Rimangono solo se li chiamiamo.

Funzionano nella maniera esattamente opposta all’amore: l’amore non puoi invocarlo, puoi solo aprire o meno la porta quando arriva.

E’ un ospite fedele e costante. Se non gli chiedi di andarsene, rimane, sempre. Diventa uno di famiglia. Tanto che, se un giorno decidi di mandarlo via, dovrai impegnarti non poco a convincerlo e, con tutta probabilità, te lo vedrai ancora spuntare da dietro una finestra o che prova a rimettere un piede in casa se hai dimenticato la porta socchiusa.

Alla fine se ne andrà, forse, ma aspettati sempre di ricevere almeno una cartolina di saluti ogni tanto.

Il dolore, all’opposto, non viene mai.

Per averlo in casa bisogna invitarlo, con tutti gli onori. E, di sua natura, sarebbe un ospite piuttosto frettoloso, non ama trattenersi troppo a lungo.

Però è sensibile alle lusinghe, vanitoso ed egocentrico. Se lo coccoli, rimane volentieri.

Ma se, anche per poco, non gli dai tutte le attenzioni che chiede, sparisce, e non lo rivedrai mai più.

Guai a non chiudere la porta con il catenaccio: quello se ne va subito. Anche in questo caso, è molto improbabile che ci torni a trovare.

Ma noi siamo strani e funzioniamo al contrario.

Ospitiamo i dolori in casa, apriamo le porte, prepariamo le stanze migliori, imbandiamo banchetti e feste per convincerli a rimanere.

Se qualcuno, comunque e nonostante i nostri sforzi per trattenerlo, se ne va, piangiamo tutte le nostre lacrime, tanta è la nostalgia che proviamo.

Gli amori, invece, li fuggiamo come la peste.

Andiamo per il mondo bardati dalla testa ai piedi sperando che nessuna freccia ci colpisca.

Se poi accade, e ci dobbiamo portare l’ospite a casa, lo facciamo dormire in cantina e non gli diamo nemmeno da mangiare. E quello non se ne va mai!

Viene ingaggiata una dura lotta, dove noi ci accaniamo a disinfettare la “ferita”, a dare punti di sutura, a coprire con bende e cerotti.

Non siamo contenti finché non vediamo, finalmente, il taglio rimarginato e la pelle raggrinzita e insensibile.

Bisogna stare attenti, ma molto, molto attenti a fare così.

Si rischia di avere per tutta la vita la casa invasa di “ospiti dolorosi” e una grande nostalgia per quelli di loro che ci hanno lasciato.

E si rischia di avere magari uno o due “ospiti amorosi”, chiusi in cantina, al freddo, mezzi morti di fame e di stenti e di avere nel corpo e nell’anima un bel po’ di cicatrici, zone insensibili e anche brutte a vedersi.

E tutto questo perché?

Perché ci “sbagliamo” a chiamare “dolore” la “ferita d’amore”.

Anche fare l’amore la prima volta “fa male”.

Anche partorire “fa male”.

C’è qualcuno che ha mai rinunciato a questo per paura del dolore?

Sì, c’è. C’è. Ma noi, si sa, siamo strani e funzioniamo al contrario.

La “ferita d’amore” non è “dolorosa”! E’ fatta a suo modo: siamo noi a chiamarla “dolore”.

Io credo che manchino “solo” le parole adeguate a definirla, ma, si sa, se manca la parola manca il pensiero e, se manca il pensiero, manca il “mondo”.

Ma questo “mondo” c’è: abbiamo “solo” smarrito la strada per arrivarci.

Ma ciò che è perso si può ritrovare.

Qualcuno deve averci convinto che le ferite fanno male.

Che il “dolore” va evitato.

Che il “limite” non va superato.

Che il “confine” non va varcato.

Quel qualcuno si è dimenticato di dirci che, così, non si vola. E’ già tanto se non si affoga.

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