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Ferdinando Brancaleone

DAL DESIDERIO ALL’ASPIRAZIONE. Riflessioni esistenziali sul “meta-desiderare”


Se si considera attentamente quanto grande e palese sia per noi il “problema dell’esistenza”, di questa esistenza ambigua, tormentata, fuggevole e simile al sogno […] e se poi si osserva come tutti gli uomini – tranne alcuni pochi e rari – sembrano non rendersi conto di questo problema, anzi non esserne affatto consapevoli, bensì preoccuparsi di tutto meno che di esso […] se si riflette bene a ciò, io dico, si può cominciare a credere che l’uomo si chiami “essere pensante” soltanto in un senso assai lato della parola.

Arthur Schopenhauer[1]

Porsi domande esistenziali! Perché? Per quale motivo alcuni individui ne sentono il bisogno ed altri assolutamente no?

Veramente io (come Vito Mancuso[2]) non so cosa rispondere, “… non so perché qualcuno nasce con il bisogno di pensare e qualcun altro no, per me si tratta di uno degli enigmi più grandi della condizione umana”[3].

Io (come Mancuso) “… appartengo a quegli esseri umani che hanno bisogno di pensare, e sottolineo bisogno, non necessità”[4]. Il bisogno rappresenta un’urgenza che “nasce-da-dentro”, promana dall’interno, è spinta interiore, calda e personale. La necessità nasce dall’esterno: è imposizione, meccanica, fredda ed impersonale.

Il bisogno risulta strettamente connesso col desiderio. Non così la necessità!

Forse per questo, in quanto essere umano desiderante, io (e altri come me) avverto il “bisogno di pensare” e di pormi domande esistenziali. Nell’Odissea della mia esistenza, “… ho un’Itaca nel cuore e nella mente”[5] (direbbe ancora Mancuso). Senza l’anelito a questa Itaca, penso proprio che “mi spegnerei”, fino alla “… completa assenza di luce interiore”[6], cedendo (forse) alle grigie sollecitazioni di un disperante cinismo.

In fondo, il mio desiderio mi “definisce”. Nel senso che, secondo me, “comprendere” che cosa veramente desidero risulta fondamentale per “scoprire” chi veramente sono.

Penso proprio che, per l’essere umano, molto (veramente molto!) dipenda dalla propria Itaca-interiore e dal richiamo che il desiderio di tale Itaca esercita su di lui. Per questo, da tanto tempo, per dare un orientamento a questa dimensione dell’esistenza in cui mi trovo immerso, ho sentito (e sento) il bisogno di indagare la natura del mio desiderio e del mio desiderare.

È certamente vero che il “desiderare” spesso (e inevitabilmente) nell’essere umano si pone alla radice dell’ansia e della tensione. Di qui il “dilemma”: è giusto desiderare o non è preferibile l’alternativa-zen volta ad “estinguere” il desiderio? E, quindi, il desiderio va coltivato o annullato? Vanno preferiti (e seguiti) gli insegnamenti di Epitteto lo stoico, di Diogene il cinico, di Eckhart il mistico, di Buddha, di Schopenhauer, oppure delle filosofie che intendono “coltivare” il desiderio e che non propongono apatìa ma “passione”, non atarassìa ma “partecipazione”, non distacco ma “comunione”?

Il dilemma (afferma Mancuso, e sono pienamente concorde con lui), è sintetizzabile in tre possibili posizioni:

1. Avere desideri, averne sempre di più;

2. Non avere desideri, estinguerne la sorgente;

3. Avere un desiderio, ricondurre ad esso i diversi desideri[7].

La mia “scelta” (come la sua proposta) si orienta decisamente verso la terza posizione. Ricondurre i molteplici e contraddittori desideri ad un unico “meta-desiderio”: un desiderio “ripulito” che orienti e che aiuti a gerarchizzare e disciplinare i diversi desideri.

Secondo tale prospettiva, il criterio fondamentale dell’esistenza non consiste nell’estinguere il desiderio, quanto piuttosto nell’orientarlo, riconducendo i molteplici e disordinati desideri all’ordine di un unico desiderare.

E, se è pur vero che “il desiderio fa soffrire” (come affermano le filosofie e le religioni che mirano ad estinguerlo) la sua “scelta” porta a rischiare tale “sofferenza” nella direzione del pathos (passione-che-fa-soffrire, ma anche passione-che-appassiona). Non si può vivere senza desiderare, ma si può vivere orientando il desiderio, in modo da “innalzarlo” e trasformarlo in aspirazione.

Che cosa significa? Che cosa comporta?

Vuol dire, sostanzialmente ricondurre la “molteplicità” (e, spesso, “contraddittorietà”) dei desideri ad un unico desiderio. Non “annullare”, quanto piuttosto “purificare” il desiderare. E “purificare” nel senso di “elevare-in-dimensione-superiore”, per cui possa divenire meta-desiderio. Nella direzione secondo cui il desiderio (“ripulito” e divenuto meta-desiderio) possa aiutare a “… classificare, gerarchizzare e disciplinare i diversi desideri, così da avere un agire unificato che si muove secondo coerenza e fedeltà”[8].

E questa nell’uomo (e in me, in quanto uomo) è una “potenzialità” ed una “prerogativa” del nous: di quella tipica “dimensione noetica”, che permette all’essere umano di conseguire quel peculiare livello di meta-consapevolezza che prende forma nell’autocoscienza (consapevolezza-di-essere-consapevole), attraverso cui è possibile (anche a questo livello, come per il “desiderio”) “classificare, gerarchizzare e disciplinare” i diversi (e dispersi) atti percettivi di consapevolezza, in modo da conseguire una coscienza-unificata (“auto-coscienza”), che “… si muove secondo coerenza e fedeltà”.

D’altra parte (lo sappiamo bene) la “vita” è affermazione di sé. E (lo sperimentiamo “nel profondo”) l’istinto di sopravvivenza è “… la forza più radicata di cui la natura dota i suoi figli”[9]. Lo diceva anche Spinoza: “Ogni cosa, per quanto sta in essa, si sforza di perseverare nel suo essere”[10]. Si tratta (appunto) di quel “conatus essendi”, dal quale promana il desiderio, e che Spinoza definisce “l’essenza stessa dell’uomo”[11].

Curare tale “istinto” significa curare il (prendersi cura del) desiderio. E significa, altresì, “… dire di sì alla logica naturale, a ciò che normalmente chiamiamo natura, processo, universo e che le religioni monoteiste definiscono creazione”[12].

Per contro, reprimere tale “conatus” (istinto di sopravvivenza) significherebbe reprimere il desiderio e, pertanto, dire-di-no alla “logica naturale”.

Per questo, vivere-affermando-la-vita (dicendo-di-sì al processo naturale) necessariamente comporta desiderare. E proprio per ciò, per quanto mi riguarda, il “criterio” su cui intendo orientare la mia esistenza non si basa sulla “estinzione-del-desiderio”, quanto piuttosto sulla “tensione” (libera e responsabile) ad “orientare-il-desiderio”, intendendo con ciò (come già dicevo) “… la riconduzione dei molteplici e disordinati desideri all’ordine di un unico desiderare”[13], attuando la potenzialità e la “direzione noetica” del “meta-desiderio”. E mi piace denominare tale meta-desiderare col temine di “aspirazione”.

Seguendo tale “direzione” e “aspirazione”, intendo affermare con decisione (e “confermare”, assieme a Mancuso) che “… se anche lo potessi, io non vorrei estinguere il desiderio, perché è proprio da lì che provengono le cose più belle della vita, tra cui l’arte, la ricerca, l’amore”[14].

Per questo, se è indubbiamente vero che “il desiderio fa soffrire”, io comunque “accetto di soffrire”. E tale “soffrire” (insieme a Mancuso) lo denomino Pathos (“Passione”), “… nel duplice senso del termine: passione come sofferenza, ma anche come energia che appassiona, l’energia più vitale e più preziosa che c’è”[15]. In questo senso, nella dimensione dell’esistenza in cui mi trovo a vivere, io ho scelto (e scelgo di momento in momento … quando ci riesco) di realizzare tale “Aspirazione-Passione”.

Mi piace concludere queste mie brevi “riflessioni” ancora insieme a Mancuso, dal quale a queste riflessioni mi sono sentito sollecitato, attraverso la ri-lettura del suo bel Volume “Il bisogno di pensare”, in cui a termine del Capitolo dal titolo “La sorgente del pensare: critica ed elogio del desiderio”, così conclude:

Non si può vivere senza desiderare, ma si può vivere, e a mio avviso si deve, orientando il desiderio: orientandolo in modo tale da innalzarlo e trasformarlo in una aspirazione”[16].

Note:

[1] Schopenhauer A., Parerga e paralipomena, tomo II, n. 271; ed. it. A cura di Mario Carpitella, tr. Di M. Montinari ed E. Amendola Kuhn, Adelphi, Milano 20032, p. 661.

[2] Cfr. Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017.

[3] Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p. 12.

[4] Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p.13.

[5] Cfr. Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p. 14.

[6] Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p. 14,

[7] Cfr. Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p. 29.

[8] Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p. 30 (il corsivo è mio).

[9] Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p. 31.

[10] Spinoza B., Etica, parte III, proposizione I, citato in Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p. 31, nota n. 28.

[11] Spinoza B., Etica, parte III, proposizione VI, citato in Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p. 31, nota n. 28

[12] Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p. 31.

[13] Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p. 32.

[14] Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p. 32.

[15] Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p. 33.

[16] Mancuso V., Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, p. 33.

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