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  • Lisa De Luca

QUANDO “PERDERE IL NOME” SIGNIFICA “RI-TROVAR-CI”


Vorrei qui analizzare una interessante espressione utilizzata da Margherita Porete, nel suo Lo Specchio delle Anime Semplici, ovvero “perdere il nome”, per designare il culmine del cammino mistico, al fine di riflettere sulle implicazioni filosofiche ed esistenziali che riveste, nel nostro linguaggio e nella nostra vita, quella speciale parola che è il “nome”.

Per riflettere su che cosa significa “perdere il nome”, però, è necessario, in via prioritaria, ragionare su cosa sia il “nome” e su cosa significhi “acquisire e/o dare il nome” alle “cose/persone”.

Margherita Porete, appartenente alla corrente definita “mistica speculativa tedesca” o “mistica renano-fiamminga”, fu una beghina, vissuta tra la fine del XIII secolo e l'inizio del XIV nella zona delle Fiandre. Il suo caso venne trattato nel corso di un esemplare processo dell’Inquisizione che culminò con la sua condanna a morte, eseguita il 1° giugno 1310 a Parigi ove lei, giudicata non solum lapsam in heresim, sed sicut relapsa e il suo Specchio, definito librum pestiferum contentivum heresum er errorum, furono bruciati sul rogo.

La sua unica opera circolò in maniera massiccia in tutta l’Europa nonostante l’operazione di damnatio memoriae (per la quale l’attribuzione alla sua vera autrice fu possibile solo verso la metà del ‘900 ad opera della storica Romana Guarnieri) e fu quasi certamente conosciuta dal più famoso Meister Eckhart che ne riprese alcuni concetti e alcune espressioni, evidentemente apprezzandone la profonda spiritualità e la grandezza del pensiero filosofico. (1)

Riportiamo, uno per tutti, un brano in cui si ritrova questa particolare espressione relativa, appunto, alla “perdita del nome” da parte di quell’Anima che abbia raggiunto l’apice dell’ascesa mistica:

L’Anima – Oh, dolcissimo puro divino Amore, dice quest’Anima, quale dolce trasformazione è essere trasformata nella cosa che amo più di me stessa. E tanto sono trasformata, che per amare ho perduto il mio nome, io che so così poco amare: questo avviene per amore, poiché io non amo che Amore. (2)

Non c’è unanime interpretazione sul significato dell’espressione “perdere il nome”, ma, prima di arrivare al caso di Margherita, mi pare interessante riflettere sul concetto di “nome” da alcuni punti di vista, in considerazione del fatto che proprio il “nome” ha attirato l’attenzione di molti filosofi, e anche di psicologi e psicoanalisti, ma anche del fatto che proprio il “nome” riveste una particolare importanza in molte tradizioni spirituali.

Tralasciando gli aspetti propriamente grammaticali del “nome”, che pure potrebbero rivestire un certo interesse, dal punto di vista spirituale, come abbiamo accennato, molte tradizioni riservano al “nome” una importanza del tutto particolare.

Citiamo, senza approfondire, ma a mò di esempio, alcuni contesti nei quali viene riservata grande importanza al “nome”.

Penso, in primis, al Sacramento del Battesimo che prevede l’”imposizione del nome” al neonato, ma anche al potere che Dio conferisce ad Adamo di “nominare” le cose, che è – seppur in grado minore – il Suo stesso potere, ovvero, prioritariamente, un “potere creatore”.

In secondo luogo, mi viene in mente l’importanza che il “nome” riveste nella religione ebraica.

Non solo è molto importante, in questo contesto, il nome che si sceglie di attribuire al neonato, ma, soprattutto, è presente il grande tema del “Nome di Dio”, che non si può neanche pronunciare.

Questo aspetto è molto interessante, ancora più interessante se aggiungiamo il fatto che, accanto a questa impronunciabilità del Nome di Dio, la rivelazione, nella religione ebraica, è per eccellenza un “evento acustico”, cioè si fonda proprio sulla Parola e sul “parlare”. (3)

Sembrerebbe esserci una contraddizione, complicata ancora di più – se vogliamo – dal fatto che in questo contesto spirituale anche il “silenzio” riveste una importanza capitale e il “silenzio”, parrebbe – almeno a prima vista – proprio il contrario del “parlare”. (4)

Sia dal punto di vista spirituale che dal punto di vista filosofico, mi sembra di poter dire che – pur nella complessità e nella varietà delle posizioni sostenute su questo fronte, la questione possa ridursi, nel suo “nocciolo duro”, alla insidiosa domanda: l’attribuzione dei “nomi” alle “cose” è solo una pura convenzione linguistica oppure i “nomi” si “fondano” sulla “natura”, sull’”essenza” delle cose?

Insomma, quella che fu la famosa disputa scolastica tra nominalisti e realisti, sintetizzabile nell’aut aut: o le cose sono conseguenza dei nomi oppure i nomi sono conseguenza delle cose.

Ma, anche, e qui introduciamo un altro elemento di complicazione, se vi sia un “aggancio” delle cose che nominiamo alla “verità” o meno, con conseguente possibilità o non-possibilità del “nome” di cogliere tutta o in parte questa “verità”.

Questo aspetto della questione, a me sembra, è sintetizzabile nella opposta posizione sostenuta da Platone, da un lato, e dai Sofisti, dall’altro: per Platone c’è sicuramente un legame forte tra “verità” e “cose” e il problema, semmai, risiede nella possibilità o meno del linguaggio di cogliere ed esprimere – tutta o in parte – questa “verità”; per i Sofisti, all’opposto, nulla importa che la “verità” e le “cose” siano o meno legate, tanto si è che il linguaggio che esprime le “cose” acquista una sorta di sua “autonomia” del tutto svincolata da presupposti ontologici e valoriali e, quindi, è come se diventasse una “entità a se stante”, con potenza propria, indipendente dalle “cose”, ma soprattutto indipendente dalla “verità”. (5)

E’ evidente che questo passaggio è molto importante perché sostenere una posizione piuttosto che un’altra porta con sé conseguenze assai diverse sul piano ontologico, gnoseologico e – se vogliamo – anche etico.

Senza approfondire queste opposte posizioni, cosa, questa, che ci porterebbe troppo lontano dal tema centrale della nostra trattazione – a me sembra che entrambe abbiano colto aspetti interessanti della questione.

Mi sembra, infatti, difficilmente negabile che l’attribuzione di “nomi” e, anche, il linguaggio tutto, abbia una certa parte di arbitrarietà e convenzionalità e che, questa, abbia a che fare con la “verità” solo in maniera “accidentale”, ma non “essenziale” né “necessaria”. Per dirla con Platone così come si esprime nella Lettera VII: “(…) nulla impedisce che quelle cose che ora son dette rotonde si chiamino rette, e che le cose rette si chiamino rotonde; e i nomi, per coloro che li mutassero chiamando le cose con nome contrario, avrebbero lo stesso valore.

Questo, secondo me, è valido, ma è valido solo su un piano prettamente “linguistico”, direi “formale”, “esteriore” – anche “superficiale”, al limite. Certamente spiega perché esistono diverse lingue e perché, che io chiami il tavolo “tavolo” o “table”, il “tavolo cosa” rimane quello.

Non è questo il piano che mi interessa approfondire qui, piuttosto vorrei analizzare un’altra affermazione platonica – questa volta contenuta nel Cratilo - che sembra opposta alla precedente, ma io credo che sia piuttosto complementare: “I nomi esprimono la natura delle cose e non sono soltanto segni condizionati di esse. Per questo la conoscenza dei nomi porta con sé la conoscenza delle cose. Le cose hanno i loro nomi secondo la loro natura, la conoscenza delle cose permette di dare loro dei nomi; questi ultimi vengono dati alle cose secondo l’arbitrio imano attraverso uno statuto iscritto oggettivamente nella natura”.

Mi sembra che questa affermazione sia complementare, e non opposta, rispetto alla precedente perché, a mio avviso, la questione del “nome”, della “attribuzione” dei nomi alle cose e del linguaggio in genere, non ha nessuna speranza di essere risolta se non distinguiamo, se così si può dire, all’”interno” del “nome”, tre piani differenti (che, forse, volendo, potrebbero essere ridotti a due), in parte collegati tra loro, in parte no perché, come vedremo, a me pare che il primo piano possa stare del tutto “separato” dagli altri due, mentre il secondo e il terzo piano non godono di totale autonomia l’uno dall’altro.

O, se vogliamo, possiamo anche dire che sono tre differenti punti di vista sulla “questione del nome”.

Intendo: il primo piano – o primo punto di vista - attiene al ragionare sul “nome” come flatus vocis, come insieme di lettere che sono così, ma che potrebbero anche essere altrimenti. Questo è l’aspetto “esteriore” dei “nomi” e delle parole tutte. Semplificando, potremmo dire che, a questo livello, possiamo fare “quello che vogliamo”: dare nomi alle cose, cambiare nome alle cose, anche inventarci un linguaggio artificiale o una nuova lingua. Qui, direi, “cosa” e “nome” sono ontologicamente e gnoseologicamente scollegati, ma non interessa neanche sapere se sono collegati o meno, perché la partita si gioca tutta sul piano prettamente linguistico, cioè sulla “tenuta logica” delle pure proposizioni o, all’estremo, nemmeno su quella.

Il secondo piano – o secondo punto di vista – attiene al rapporto che sussiste o meno ed, eventualmente, alle modalità di questo rapporto, tra “chi nomina” e “il nominato”: a questo livello, io credo, non entra ancora in ballo in maniera preponderante la questione ontologica - anche se non è assente e comincia ad affacciarsi - ma si fa pressante la questione gnoseologica. Cioè, per dirla in altri termini: come “nomino” io, “soggetto conoscente” le “cose”? Ovvero, che “rapporto” istituisco con queste “cose” e, soprattutto, “cosa” colgo di queste “cose” attraverso l’atto del nominare?

A questo riguardo, tenendo presente la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno – utile, se non addirittura necessaria – la direi con le parole di Heidegger: “Il nominare non distribuisce nomi, non applica parole, bensì chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il chiamare avvicina ciò che chiama. (…) Questa chiamata è l’evento della differenza che porta il mondo al suo esser mondo, e le cose al loro esse cose”. (6); o anche con le parole di Galimberti: “Parlare, infatti, non è emettere suoni, ma esprimere sensi, e non si può credere che un pensiero, senza l’organizzazione simbolica apportata dalla lingua, possa pensare qualcosa”. (7)

A questo livello, c’è quella coincidenza tra parola e pensiero per cui non è che io “agganci” con il linguaggio delle “cose là fuori”, non c’è un “soggetto” conoscente separato dalle “cose” che coglie qualcosa o tutto delle “cose” e poi attacca l’”etichetta” linguistica, ma c’è piuttosto – sempre per dirla con Heidegger – un “Esser-ci” che è un “essere-nel-mondo”: “L’in-essere non è quindi una ‘proprietà’ che l’Esserci abbia talvolta sì e talvolta no e senza la quale egli potrebbe essere com’è né più né meno che avendola. Non è che l’uomo ‘sia’ e, oltre a ciò, abbia un rapporto con ‘mondo’, occasionale e arbitrario. L’Esserci non è ‘innanzi tutto’ per così dire un ente senza in-essere, a cui ogni tanto passa per la testa di assumere una ‘relazione’ col mondo. Questa assunzione di relazione con mondo è possibile soltanto in quanto l’Esserci è ciò che è, solo in quanto essere-nel-mondo.” (8)

Questo rapporto uomo-mondo si rispecchia, diciamo così, nel linguaggio, cioè nel “modo” particolare che ha l’uomo di “nominare” le “cose” che non prescinde, ma è fondato sulla “possibilità” di “nominarle” e, ancora, di “nominarle” per quel che le sue “strutture” e il suo “linguaggio” gli permettono di fare. A questo livello, io credo, si può indagare diffusamente la questione del fenomeno e assumere diverse posizioni in merito, ma si può ancora decidere se aggiungere la “variabile noumeno” o meno.

Il terzo livello, infine, si snoda tutto sul fronte del noumeno, dell’”essenza”, ed è prettamente un livello ontologico, oltre che gnoseologico, ove è necessario stabilire se delle “cose” io posso o meno cogliere l’”essenza” – la “verità”, anche, potremmo dire – e, se sì, se questa “essenza/verità” è coglibile ed esprimibile o meno attraverso il linguaggio, in particolare attraverso il “nome”.

Su questo spinoso versante potremmo farci aiutare ancora da Platone, dalla mistica ebraica, anche da Heidegger, per certi versi, ma ci facciamo invece aiutare da P.A. Florenskij, che con la sua “filosofia del nome” ha approfondito degli aspetti che mi sembrano molto adeguati per affrontare il tema che ci interessa.

La filosofia del nome di Florenskij, (…) va al cuore del problema ontologico dell’antinomia e del simbolo. Nel nome e nel suo suono si offre all’uomo un ‘rappresentazione fisica della sfera sovrasensibile’. La dialettica nome/cosa, (…), fa acquisire al nome una forza rivelativa, per cui, specialmente nel nome proprio, si crea una vera e propria coincidentia oppositorum tra fenomeno e noumeno.” (9)

Ecco, per capire profondamente che cosa vuol dire Margherita Porete quando usa l’espressione “perdere il nome”, credo che sia necessario ragionare proprio a questo livello e cercare di intendersi su che cosa significhi che il nome è un simbolo e del simbolo ha tutta la potenza.

Nel nostro uso quotidiano della parola “simbolo”, spesso ne ignoriamo il significato originario: noi, infatti, spesso la utilizziamo in espressioni quali, ad esempio, “dono di valore simbolico”, il che fa riferimento ad un dono di esigua entità “effettiva”, di “poco valore intrinseco, materiale”.

Etimologicamente, tuttavia, “simbolo” deriva dal greco symbállō – “metto insieme” e, infatti, in origine, nell’uso dell’antica Grecia, il simbolo era il mezzo di riconoscimento che si otteneva spezzando irregolarmente in due parti un oggetto, in modo che il possessore di una delle due parti potesse farsi conoscere – e ri-conoscere - facendole combaciare.

Etimologia e uso originario del simbolo, quindi, ci portano su un piano estremamente “reale” e “materiale”.

Il simbolo, infatti, ha la funzione precipua di unire e ri-unire due cose, ma, direi, non in maniera “astratta” o “metaforica”, ma in maniera “reale”.

Questa accezione è presente pressochè in tutti i popoli primitivi ove è molto diffusa la credenza che “conoscere il nome” delle cose e delle persone permetta di “intervenire nel mondo”, in maniera estremamente “reale”, per quanto spesso sentita come “magica” e “occulta”. (10)

In questa “magia del nome” possiamo scorgere il “sentore” di una certa “eccedenza” – non solo di significato, ma anche di “essere” – che il “nome” ha rispetto alla “cosa” nominata.

Cioè, nelle parole – e nel “nome” in particolare – c’è certamente un aspetto puramente “formale” ed “esteriore”, come abbiamo cercato di dimostrare prima, ma c’è anche “qualcos’altro”.

Che cos’è questo “qualcos’altro?”

Io credo che sia proprio il “valore simbolico” del “nome”, intendendo il “simbolo” alla maniera etimologica e nel suo senso originario sopraesposti: cioè, a me pare che il “nome” costituisca una sorta di “ponte” tra “ciò che appare” e “ciò che è”, tra il fenomeno e il noumeno. (11)

Penso anche, però, che non possiamo né sperare – dal punto di vista gnoseologico – di arrivare ad “esaurire” la manifestazione fenomenica, né credo che si possa aspirare a “cogliere” del tutto – dal punto di vista gnoseologico e ontologico - la complessità e la ricchezza noumenica.

Questo proprio perché fenomeno e noumeno li sento come “intimamente” legati e quindi, poiché il noumeno mi pare proprio che non sia coglibile, il fenomeno - ad esso congiunto “simbolicamente” e di esso “manifestazione” – non possiamo mai esser certi che sia “manifestazione esaustiva”, anzi, forse dobbiamo assumere che non lo sia e che, al limite, “apra” alla possibilità di conoscere il noumeno, ma non mai completamente, non mai nella sua inesauribile totalità.

Il simbolo si colloca, quindi, a livello linguistico sulla soglia critica, vissuta esistenzialmente, tra il conoscibile e l’inconoscibile; (…)” (12)

E mi viene da dire che deve essere “per forza” così, nel senso che, se “conoscere il vero nome di qualcuno significa conoscere il percorso esistenziale e gli attributi della sua anima” (13), allora è “bene” che il “nome” non possa mai essere pienamente “afferrato” e “imbrigliato”, è “bene” che rimanga uno “scarto di irriducibilità”, pena il venir meno della singolarità unica e – appunto, irriducibile – che è l’esistenza di ognuno di noi.

Il “nome”, quindi, proprio nella sua valenza simbolica, ci ricorda questa “apertura oltre”: ci rammenta che l’”essenza” (il noumeno) c’è – nell’”Aldiquà” o nell’”Aldilà” secondo me non è rilevante, l’importante è che sia chiaro che è “altrove” – ma che non ci è dato coglierla completamente, proprio per “salvarla”.

Ecco allora che, a questo punto, penso si possa provare a ragionare su che cosa intendesse dirci la Porete quando affermava che raggiungere il culmine dell’esperienza mistica significava “perdere il nome”.

Una illustre interpretazione di questa espressione ci viene fornita da Luisa Muraro, la quale afferma: “Va notato il modo in cui Margherita significa l’annientamento di sé: come perdita del nome (…). Perdita di sé, dunque, a livello simbolico e non ontologico; si potrebbe però sostenere che, per l’essere umano ciò non faccia nessuna differenza: (…)”. (14)

Ora, certamente non si tratta, a mio avviso, di una perdita avente valore ontologico, nel senso che, trovandoci qui all’apice del percorso spirituale, non è sostenibile l’idea che Margherita alluda a una “perdita di essere”, ma, semmai, ad una “acquisizione di essere”.

In realtà, non penso nemmeno che sia corretto parlare di “perdita” o di “acquisizione” di “essere”, nel senso che non c’è, io credo, un “cambiamento” di statuto ontologico: non si è “qualcosa” – ontologicamente – e si diventa “qualcos’altro” – ontologicamente.

Piuttosto, si esplica al massimo la nostra “essenza”, alla maniera di “potenza” e “atto”: si “attualizza” quanto più possibile di ciò che già, da sempre, si “possedeva in potenza”. (15)

In questa accezione, non mi trovo completamente d’accordo con la Muraro quando afferma che, per l’essere umano, non c’è differenza tra livello simbolico e livello ontologico perché, appunto, non trovo affatto sostenibile l’ipotesi di “modificazione” dello stato ontologico.

Al massimo, riesco a sentire come verosimile la “modificazione” della “parte del simbolo” attinente alla “sfera fenomenica”, ma non l’”altra parte del simbolo” – quella che deve “combaciare” dopo la “rottura” – relativa alla “sfera noumenica”.

In questa accezione, allora, concordo, invece – se ne intendo correttamente il senso – sulla accezione della “perdita del nome” a livello “simbolico”, intendendo il “simbolo” alla maniera forte sopraesposta.

Se il “simbolo” è ciò che “unisce” e, nella fattispecie, “unisce diversi piani di realtà” e se il “nome” può essere considerato un “simbolo”, allora a me sembra che “perdere il nome” sia da intendere come la “perdita” di tutte le nostre determinazioni finite, di tutti i “legami”, gli “schemi”, le “sovrastrutture” di quello che Marco Vannini chiama l’”io psicologico”, perdita indispensabile e necessaria affinchè possa emergere l’”io spirituale”.

Non a caso, Margherita insiste su un’altra “perdita” fondamentale, legata strettamente alla “perdita del nome”: ovvero sulla necessità, ad un certo punto, di andare oltre anche l’affermazione, per l’Anima, di “voler fare la volontà di Dio” perché, ci dice la Porete, questo non è ancora il massimo raggiungibile.

Se “vogliamo” fare la “volontà di Dio”, noi “vogliamo” ancora qualcosa, certo qualcosa di più “alto”, anche di massimamente alto, ma siamo ancora “dentro” la dinamica della volontà, appunto.

Il vero culmine del cammino spirituale, il punto più difficile, e, tuttavia, la vera chiave di volta, consiste proprio nel “perdere” anche questa “ultima volontà”: non bisogna più “volere niente”, nemmeno “volere la volontà di Dio”.

Finchè “voglio” sono “legato”, “ingabbiato”, sono ancora “io” che “voglio”, mentre l’obbiettivo – diciamo così – è arrivare a farsi canale così pulito, specchio così limpido, da non sapersi nemmeno più “canale” né “specchio”, ma da permettere, come ci dicono i mistici speculativi, che sia la “divinità” a scorrere in noi. (16)

A questo punto è lecito chiedersi che cosa possa interessare a noi, nella nostra vita quotidiana e nel nostro “aver a che fare” con le “parole” e con i “nomi” tutto questo panorama di cui abbiamo brevemente parlato e che sembra attenere a sfere assai differenti da quelle che usualmente frequentiamo.

A me pare che l’interesse, per noi, risieda nel valore “paradigmatico” di alcuni contesti/esperienze, come se questi potessero fungere da “modello ideale”, magari irraggiungibile, ma pur sempre “valido” a mò di “linea guida”.

Conoscere e ragionare sul significato e il valore del “nome” in questi panorami religiosi, spirituali e mistici può essere una sorta di “nodo al fazzoletto” per non dimenticare, nella nostra esperienza quotidiana e nell’esercizio delle nostre professioni, che non bisogna mai credere di poter “afferrare” completamente le cose e le persone, ma, ancora prima, noi stessi.

Significa “capire” – e quindi praticare – l’”apertura” a cui rimandano le parole e i nomi, consapevoli che c’è sempre “qualcos’altro” e che, più “procediamo”, più questo “qualcos’altro” fa sentire forte il “peso” della sua “eccedenza”.

Non ha alcuna importanza, a mio avviso, intendere il “qualcos’altro” in maniera religiosa/spirituale o meno, non importa se il “qualcos’altro” lo “sentiamo” come trascendente o immanente: l’importante è che esso rimanga “sullo sfondo” per non farci cadere in troppo facili spiegazioni e in troppo semplici riduzionismi.

E, forse, nemmeno l’espressione “sullo sfondo” è corretta, perché mi pare piuttosto che questo “qualcos’altro” ci venga in qualche modo incontro e che noi si vada a esso incontro, con l’”umiltà”, mi viene da dire, di riconoscere che ogni incontro è unico e non ripetibile e che, certamente, non “esaurisce” la “cosa incontrata”, al limite ne “svela” qualche aspetto, ma mai tutti e mai completamente.

Mi piace concludere con un brano di Massimo Recalcati, che, nel suo Le mani della madre, così parla del “nome”, collegandolo profondamente con l’amore materno: “Lacan ha affermato una volta che l’amore è sempre ‘amore per il nome’. L’amore materno mette in evidenza questa verità. L’amore materno, infatti, non è mai amore generico, non è amore per l’universale, amore per la vita, amore per l’amore. L’amore materno, più di ogni altro amore, rivela che, quando si ama, si ama sempre una vita particolare, il soggetto nella sua singolarità, che l’amore è solo e sempre amore per il nome proprio, per il nome di chi amo, per la sua esistenza unica, irripetibile e insostituibile”. (17)

Allora, se Amore è “filosofo”, nel senso platonico che conosciamo, a me pare che possa essere anche “Il Nominante” per eccellenza: ti amo e quindi ti “nomino”, ti “de-finisco”, certo, nel senso che riconosco la tua “particolarità”, ti riconosco nel tuo “esser tu e non un altro”, ma non ti “finisco” nel “nome” che ti dò. Non ti amo perché ti ho “de-finito” – perché ti “conosco” e “ri-conosco”– ti amo proprio perché so che non posso “definirti-finirti” – quindi proprio perché “non” ti conosco.

E l’amore/Amore, allora, consiste nel “lasciar essere” il “ci”, l’”apertura”.

Questo è il significato più profondo del “nome”, questo è il suo valore “simbolico” e, quindi, “perdere il nome” può davvero significare “ri-trovar-ci”: “ri-trovare”, cioè “trovare di nuovo” “qualcosa” che già c’è, che non viene da me, scorgere il noumeno “dietro” al fenomeno; “ci”, cioè “io come apertura”, nella mia esistenza unica, irripetibile e insostituibile, ma anche profondamente “irriducibile” a qualsiasi idea, concetto, sentimento, “schema” che provi a “de-finirmi” tentando di eliminare il “ci” dal mio “nome”.

Note

1. Cfr. MARGHERITA PORETE, Lo Specchio delle Anime Semplici, traduzione di G. Fozzer, prefazione storica di R. Guarnieri, commento di M. Vannini, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo 1994;

2. Ivi, cap. 28, 15-19;

3. Cfr. GERSHOM SCHOLEM, Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, traduzione di A. Fabris, Adelphi Edizioni S.p.A., Milano 1998;

4. Cfr. ANDRE’ NEHER, L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, traduzione di G. Cestari, Casa Editrice Marietti S.p.A., Genova 1997;

5. Il pensiero di Platone sulla questione del linguaggio e dei nomi ha subito degli sviluppi e si possono rintracciare nelle sue opere delle interpretazioni discordanti sull’argomento; Cfr., tra gli altri, GAETANO LICATA, Teoria dei nomi e teoria delle idee in Platone, in Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, anno 4 (2002);

6. MARTIN HEIDEGGER, Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, pp. 34-41;

7. UMBERTO GALIMBERTI, Il corpo, Undicesima edizione (aggiornata) nell’”Universale Economica” – SAGGI, Feltrinelli, Milano 2002, pag. 176;

8. MARTIN HEIDEGGER, Essere e Tempo, traduzione di P. Chiodi condotta sull’undicesima edizione, Longanesi & C., Milano 1970, pag. 81;

9. Cfr. GRAZIANO LINGUA, Le parole e le cose. La filosofia del nome di P.A. Florenskij, in Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, anno 4 (2002);

10. Non a caso, infatti, il “nome” riveste grande importanza negli incantesimi, ma anche negli esorcismi. Ci dice ancora Galimberti: “ “E’ noto che gli antichi ritenevano di poter dominare le potenze malvagie chiamandole con il loro nome, di poter indebolire o neutralizzare il proprio nemico eseguendo certi procedimenti magici sul suo nome”, UMBERTO GALIMBERTI, Op. Cit., pag. 174;

11. Cfr. YARONA PINHAS, Scintille dell’anima. Un viaggio spirituale nella Cabbalà, Giuntina, Firenze 2012;

12. GERMANO PATTARO, Il linguaggio mistico, in AA.VV., La Mistica, fenomenologia e riflessione teologica, a c. di E. Ancilli e M. Paparozzi, Roma, Città Nuova 1984, Vol. II, pag. 492;

13. CLARISSA PINKOLA ESTES, Donne che corrono coi lupi, traduzione di M. Pizzorno, Sperling & Kupfer Editori S.p.A:, Milano per Edizioni Frassinelli 2009, pag. 111;

14. LUISA MURARO, Lingua materna scienza divina, M. D’Auria Editore, Napoli 1995, pag. 153;

15. La “perdita del nome”, infatti, è strettamente collegata, nell’opera di Margherita Porete, alla questione della “divinizzazione dell’anima”, argomento assai spinoso in ambito mistico. Molti mistici, per tentare di ovviare ai fraintendimenti a cui questa espressione facilmente si presta, scelsero spesso di usare l’espressione “diventare ciò che Dio è” piuttosto che la più drastica “diventare Dio”, proprio per tentare di salvare la “differenza ontologica” tra uomo e Dio;

16. Cardine filosofico e spirituale de Lo Specchio delle Anime Semplici è proprio questo “movimento dialettico” dell’Anima, che si snoda nelle tre accezioni di: “dialettica volere/non volere”, “dialettica avere/non-avere”, “dialettica sapere/non-sapere”;

17. MASSIMO RECALCATI, Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno, Feltrinelli Editore, Milano 2015, pag. 65.

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