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Elisabetta Piccinini

RACCONTARSI, VERA POSSIBILITA’ DELLA NOSTRA ESISTENZA


[...] Finalmente i cannoni hanno smesso di sparare. Il buio naturale della notte d’estate ritorna. Si sentono nuovamente gli innocenti rumori della campagna, una mela cade per terra. Mandiamo queste note ai cacciatori che si sono alzati, con la speranza che vengano rimaneggiate, fino a diventare qualcosa di utile.

E’ notte. Le cicale friniscono, il vento solleva la sabbia. Potremmo essere a Bagdad, oppure a Herat, Afghanistan. Ma anche in Darfur. O in Siria, teatro dell’ennesima guerra civile che sta causando centinaia di morti e migliaia di profughi. Invece siamo in Inghilterra, estate 1940. A scrivere è Virginia Woolf, all’alba del secondo conflitto mondiale. Quella guerra fu per lei il colpo di grazia; la sua depressione aumentò e l’anno dopo, con un bel po’ di pietre nelle tasche, si gettò nel fiume Ouse, per non tornare mai più. Ma le parole tratte dal saggio “Pensieri di pace” sono talmente attuali e piene di energia che ognuno di noi dovrebbe farle proprie. Sono il pensiero della donna siriana che nel buio del suo rifugio ringrazia per essere sopravvissuta un altro giorno alle bombe, alla fame e alla miseria. Sono i pensieri di una bambina africana che abbraccia la sua mamma in uno dei tanti campi profughi. Ma possono essere anche un nostro pensiero; noi, uomini e donne occidentali che, al sicuro nelle nostre case, non ne possiamo più dei conflitti che scoppiano con frequenza quotidiana. La Woolf sotto le bombe che colpiscono l’Inghilterra riflette su un concetto semplice ma spesso dimenticato. La parola è importante. Parlarsi è importante. A volte basterebbe solo guardarsi negli occhi, confrontarsi…. Già. Li vedete Netanyahu e Hanieh seduti ad un tavolo? O il governo turco che finalmente ammette l’uccisione di quasi tre milioni di armeni? Fantapolitica. Però l’autrice di Mrs. Dalloway ha ragione. La guerra è fatta da uomini, che smettono di comunicare con le parole ed iniziano a farlo con le armi. Perciò occorre recuperare il senso della parola che è veicolo dei pensieri.

Il linguaggio ha una potenza straordinaria. Può avvicinarci agli altri o condannarci ad una vita di solitudine. La forza di una parola detta o di una verità taciuta può donare la libertà ad un uomo o condannarlo a morte, guidare un esercito, unire un padre ad un figlio, privare una persona dei suoi affetti più importanti.

Socrate fu condannato a morte nel 399 a.c ufficialmente per empietà nei confronti degli dei. In realtà fu ucciso perché Atene non era pronta ad ascoltare le sue parole, a recepire il suo messaggio. Dopo aver perso la guerra del Peloponneso contro Sparta ed il governo dei Trenta Tiranni, la democrazia ateniese era sull’orlo del baratro. Incapace di tornare agli splendori di Pericle, non poteva tollerare che venissero esibite le proprie debolezze. E Socrate lo faceva. Continuamente. Umiliava i sofisti, rendendo palese la loro pochezza. Condannava i vizi in cui era caduta Atene. Ma soprattutto insegnava a ragionare. E quindi a parlare. Perché la parola, lo abbiamo detto prima, è strumento di cui si serve la mente per esprimersi. Il mondo è il teatro dove la ragione mette in scena il proprio spettacolo. Descartes, molti secoli dopo avrebbe affermato che l’uomo esiste, in primis, come soggetto pensante. Possiamo estendere il dubbio su ogni cosa, facendolo diventare iperbolico, cioè assolutamente universale. Ma per essere ingannato io devo esistere; per esistere devo dubitare. Ergo io esisto in quanto spirito e ragione. Ma del mio intelletto, della mia capacità critica, non so cosa farmene senza il linguaggio. Uno spettacolo non va in scena senza attori. Un ghepardo non saprebbe cosa fare della sua velocità se non avesse le zampe. Così ogni uomo, senza il linguaggio, non potrebbe relazionarsi con il mondo, sarebbe un corpo mutilato, un ramo spezzato, un sole coperto da nuvole.

Socrate insegnava a cercare la verità, a perseguire la correttezza, morale e politica. Ma il filosofo greco era ingenuo. Riteneva che nessun uomo facesse del male volontariamente; chi compiva brutte azioni lo faceva perché non aveva capito cosa andava fatto, non per fare volontariamente del male. In questo si sbagliava. Perché a lui del male lo hanno fatto. Volontariamente. Lo hanno condannato a morte. Gli ateniesi non erano pronti a capire, ad ascoltare. Certo Socrate poteva salvarsi. Bastava ritrattare tutto quello che aveva sostenuto in quegli anni e chiedere scusa. Equivaleva a rinnegare se stesso. E questo per lui era più terribile della morte. Così ha preferito bere la cicuta ed è diventato il primo martire laico dell’Occidente.

Wittgenstein nel Trattato logico-filosofico definisce il linguaggio come la “totalità delle proposizioni che significano i fatti”. Il linguaggio quindi come raffigurazione logica del mondo. Non esiste una sfera del pensiero a prescindere dalla sua esprimibilità. I fatti sono il mondo, gli accadimenti. Il linguaggio esprime la concatenazione logica di tali avvenimenti. Per Wittgenstein pensiero e linguaggio coincidono. A mio avviso però questo può rappresentare un limite. Ribadendo l’assoluta importanza del linguaggio come caratteristica predominante di un “esserci nel mondo”, è altrettanto vero che la parola non esprime solo il mondo fisico che l’uomo osserva, ma trasferisce emozioni, sentimenti. Anzi, forse è proprio quando esprime questi concetti che il linguaggio acquista una potenza straordinaria. L’uomo vive costruendo una serie di relazioni, che si fondano essenzialmente sulla possibilità di comunicare con l’altro non tanto del caldo o del freddo, del sole o della pioggia, ma i nostri stati d’animo, le nostre emozioni.

La parola è conseguenza del pensiero che è sintesi della nostra percezione del mondo. La realtà che ci circonda non ha un’identità predefinita, avulsa dal nostro spirito e dalla nostra capacità di giudizio. Certo, esistono dei dati oggettivi come il sole, la luna, le stagioni, gli animali. Ma un conto è affermare che tutte le sere il sole tramonta sul deserto del Namib. Un altro è trovarsi quando il sole lascia il posto alla luna su una duna del deserto più antico del mondo. Il sole è una palla infuocata che si getta nel nulla in brevissimo tempo. Tu sei seduto su una montagna di sabbia rosso sangue, caldissima. Tutto attorno a te è color porpora. Gli uccelli cantano in modo sinistro. Il vento si alza. Trovate sia lo stesso posto? Sì. Ma anche no. Perché io ho appena descritto come ho vissuto un’esperienza oggettiva come un tramonto nel deserto, facendola diventare inevitabilmente un racconto soggettivo. Ma un’altra persona, che ha vissuto la stessa esperienza, vi darebbe un’altra descrizione. Qual è allora quella vera? Entrambe. Perché il linguaggio esprime quello che per noi è il mondo.

Heidegger sosteneva che il linguaggio è l’unica, autentica e diretta manifestazione dell’Essere. E’ il luogo in cui l’Essere alberga, in cui l’uomo scopre e mantiene vivo il suo senso più profondo: la relazionalità. E’ nel rapportarci agli altri, nel comunicare, che esprimiamo il nostro significato. Senza linguaggio saremmo come l’urlo strozzato che muore nella gola di uomo muto. Per esistere veramente dobbiamo lasciare manifestare noi stessi. Noi siamo i tedofori della nostra fenomenologia.

Le parole svelano dunque il significato dell’Essere. L’uomo non deve fare altro che disporsi a questo svelamento: solo ascoltando può comunicare e realizzare pienamente se stesso.

C’è un altro sentiero altrettanto interessante da percorrere. Abbiamo detto che il linguaggio è il mezzo con cui ogni uomo esprime in modo responsabile la sua essenza. Che la parola da voce non solo e non tanto al logico rapporto causa-effetto che sta alla base della realtà, quanto a sogni, sentimenti, emozioni. Ma esiste una dimensione del linguaggio altrettanto importante: quella dell’inesprimibile. Di tutte quelle cose che, nel momento stesso in cui vengono pronunciate, perdono consistenza, si diradano come nebbia all’alzarsi del vento. Sono le emozioni più profonde, i desideri più nascosti. Come esprimere in modo efficace il dolore lancinante che provi nel momento in cui perdi una persona cara? L’ansia che ti corrode l’anima, il respiro che si strozza in gola creandoti affanno, disperazione. Non credo esistano parole sufficientemente significanti per raccontare il fallimento e l’angoscia, la disperazione e l’abbandono. Neanche alle persone che ti vogliono più bene. Che però comprendono ugualmente il tuo stato d’animo. Perché, in questi casi, è il tuo corpo a parlare. Attraverso piccoli gesti, sospiri. Grazie agli occhi. Esistono dunque realtà ontologicamente inesprimibili che fanno parte del linguaggio senza esserne una contraddizione ma un completamento. Perché noi siamo in primis anima e ragione. Ma siamo anche un corpo. Fuso a cuore ed intelletto in modo indistinguibile. Il corpo esprime ciò che, solo con la parola, perderebbe valore. E’ il prolungamento del linguaggio, è il completamento alla nostra possibilità di espressione.

Mente e corpo, anima e carne. Linguaggio verbale ed esprimibilità corporea di ciò che risulterebbe, altrimenti, in-raccontabile. La parola e il corpo, suo prolungamento fisico, innestano quel circolo ermeneutico di cui l’Essere è inizio, tramite e fine ultimo. Il linguaggio, verbale e corporeo, si identifica quindi con un infinito processo di auto-manifestazione e comprensione dell’Essere. Grazie alle parole e al corpo noi siamo compresi: non solo da chi ci sta di fronte nell’immediato, ma anche da chi legge i nostri pensieri anni o secoli dopo. Ecco perché le parole di Virginia Woolf con cui ho aperto questa riflessione, ci comunicano qualcosa, anche se sono state scritte settant’anni fà. Perché la scrittrice di Mrs. Dalloway ha espresso in quel testo tutta la sua voglia di pace e di libertà. Facendo così ha raccontato se stessa. Ha manifestato la sua essenza. Ha reso vera la sua esistenza. E noi che oggi leggiamo quelle parole cogliamo da una parte l’urgenza della Woolf di raccontarsi, dall’altra ce ne appropriamo, facendole diventare così strumento per esprimere noi stessi. Ascoltiamo per comprendere, comprendiamo per raccontarci, raccontiamo per dare alle nostre esistenza un senso ed una possibilità. Il racconto ci permette di aprire un canale attraverso cui comunichiamo con l’esterno; noi andiamo verso il mondo e quest’ultimo ci corre incontro. Nel punto zero in cui questo scambio avviene brilla una luce che ci renderà visibili per tutto il tempo in cui la manterremo viva. Solo così potremo mantenere fede alla promessa che abbiamo fatto all’inizio del percorso: quella di vivere.

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